mercoledì 1 agosto 2007
Amo il latino, però……
29.O7.07
“Ammiro la volontà ecumenica del Papa, ma credo sia difficile venire incontro a tutte le esigenze”
di Carlo Maria Martini
Avendo raggiunto il traguardo degli ottant'anni, posso dire di avere vissuto per almeno trentacinque anni l'antica liturgia, quella in uso prima del Concilio Vaticano II, tutta rigorosamente in latino, con i suoi cinquantadue brani di Vangelo domenicali che si ripetevano ogni anno, dando occasione a una predica per lo più non molto diversa da quella dell'anno precedente.
L'antico rito è stato quindi quello della mia Prima Comunione, delle incipienti esperienze di chierichetto, dei contatti con la Parola di Dio offerta dalla liturgia. È stato il rito della mia ordinazione sacerdotale, delle mie Messe, dei sacramenti ricevuti. È nel quadro di questo rito che è iniziato e si è sviluppato quel contatto col divino che porta a riconoscere in Colui che chiamiamo Dio il mistero ineffabile e indisponibile, quello che ci sovrasta da ogni parte, ci avvolge, ci penetra, ci vivifica e ci fa presentire una santa vicinanza.
Anche il latino non mi ha mai fatto problema. Da bambini, soprattutto nelle risposte della Messa e in quei canti che tutta la gente conosceva, lo storpiavamo con naturalezza e con disinvoltura (come ricordava in uno scritto dell'epoca monsignor Francesco Olgiati, uno dei fondatori della Università Cattolica del Sacro Cuore, citando la storpiatura di un conosciutissimo canto che diceva Procedenti ab utroque compar sit laudatio così: «Accidenti come trotta il caval del sor Laudazio»).
Ma ben presto cominciai a imparare questa lingua e a scoprire con gioia i significati reconditi di quanto cantavamo con fervore: perché ce la mettevamo tutta e l'entusiasmo e la gioia non mancavano! L'insieme di tali celebrazioni aveva una qualità che non derivava tanto dai testi, che la gente non capiva, ma dalla dedizione personale e gratuita di chi vi partecipava.
Il latino divenne poi, nei giorni dell'adolescenza e della giovinezza, la mia lingua di studio e anche di uso quotidiano. Ancora oggi non avrei difficoltà a predicare in questa lingua. A Milano, nella Cattedrale, ero solito celebrare in latino nelle grandi festività. Perciò ho visto con rammarico il decadere del latino, anche nel mondo ecclesiastico, e i vani sforzi per farlo rivivere, tra cui quello ardente e un po' ingenuo di Papa Giovanni, che considerava la sua enciclica Veterum Sapientia per la promozione della lingua latina nella Chiesa uno dei tre atti fondamentali del suo ministero di Papa, insieme con il Concilio Vaticano II e il Sinodo Romano.
Avrei quindi le credenziali per approfittare del recente Motu proprio e ritornare a celebrare la Messa con l'antico rito. Ma non lo farò, e questo per tre motivi.
Primo, perché ritengo che con il Concilio Vaticano II si sia fatto un bel passo avanti per la comprensione della liturgia e della sua capacità di nutrirci con la Parola di Dio, offerta in misura molto più abbondante rispetto a prima.
Vi saranno certamente stati alcuni abusi nell'esercizio pratico della liturgia rinnovata, ma non mi pare tanti presso di noi. Del resto, lo dirò per quelli che capiscono il latino, abusus non tollit usum. Di fatto bisogna riconoscere che per molta gente la liturgia rinnovata ha costituito una fonte di ringiovanimento interiore e di nutrimento spirituale.
In secondo luogo non posso non risentire quel senso di chiuso, che emanava dall'insieme di quel tipo di vita cristiana cosi come allora lo si viveva, dove il fedele con fatica trovava quel respiro di libertà e di responsabilità da vivere in prima persona di cui parla san Paolo ad esempio in Galati 5,1-17. Sono assai grato al Concilio Vaticano II perché ha aperte porte e finestre per una vita cristiana più lieta e umanamente più volte.
Certo, c'erano anche allora dei santi, e ne ho conosciuti. Ma l'insieme dell'esistenza cristiana mancava di quel piccolo granello di senapa che dà un sapore in più alla quotidianità, di cui si potrebbe fare anche a meno ma che dà più colore e vita alle cose.
In terzo luogo, pur ammirando l'immensa benevolenza del Papa che vuole permettere a ciascuno di lodare Dio con forme antiche e nuove, ho visto come vescovo l'importanza di una comunione anche nelle forme di preghiera liturgica che esprima in un solo linguaggio l'adesione di tutti al mistero altissimo. E qui confido nel tradizionale buon senso della nostra gente, che comprenderà come il vescovo fa già fatica a provvedere a tutti l'Eucaristia e non può facilmente moltiplicare le celebrazioni né suscitare dal nulla ministri ordinati capaci di venire incontro a tutte le esigenze dei singoli.
Ricavo come valido contributo del Motu proprio la disponibilità ecumenica a venire incontro a tutti, che fa ben sperare per un avvenire di dialogo tra tutti coloro che cercano Dio con cuore sincero.
La lingua dei vincitori
LETTERA 124 - luglio 2007
di Ettore Masina
1
Dal suo letto d’ospedale, una mattina del febbraio 1975, Gigi Ghirotti vide che nella notte era completamente fiorito un albero che egli aveva adottato come amico. Quel tripudio di colori in un inverno non ancora concluso lo estasiò: lui, uno dei migliori giornalisti italiani, stava morendo, di cancro, ma quella mattina sentì che la sua vicenda, incomprensibile e dolorosa, era inserita nel mistero di una vita che ostinatamente si esprime oltre ogni limite. Forse pensò al verso di Quasimodo in cui Dio viene chiamato “Dio del cancro e Dio del fiore rosso”, certo, come narrò egli stesso, desiderò di poter cantare l’immensità e la forza del processo creativo. Dai ricordi dell’adolescenza sentì emergere la bellezza di un inno latino medievale, il “Veni, Creator Spiritus (Vieni, o Spirito Creatore)”, e si accinse a recitarlo accanto a quella finestra; ma tristemente si accorse di non ricordarne più le parole. Gigi poteva ancora scendere dal letto e lo fece; e cominciò a domandare a pazienti, medici, suore e visitatori se qualcuno di loro poteva aiutarlo, ma tutti, un po’ sorpresi, scuotevano la testa. Soltanto a fine mattina incontrò un seminarista americano, studente a Roma, che visitava i malati per non dimenticare le sofferenze dell’uomo. Alla domanda del giornalista sorrise e disse che sì, quell’inno lui lo aveva studiato a memoria, in ginnasio e, sì, lo ricordava ancora; ma aggiunse, arrossendo un poco, che non ne comprendeva più il significato: la sua conoscenza del latino era ormai svanita. Allora, insieme, l’uomo che comprendeva la sostanza del messaggio ma non poteva leggerlo nella sua autenticità e quello che ne conosceva soltanto la formulazione pregarono, quasi aiutandosi l’un l’altro a decifrare un antico manoscritto.
2
Ho ripensato a quest’episodio quando ho letto il motu proprio con il quale Benedetto XVI concede, di fatto, a chi vuole, il diritto (non il permesso) di celebrare la Messa secondo il rito di Pio V, in vigore dal 1570 sino alla riforma liturgica del 1963. E ho pensato che sarebbe bello che i nostalgici del latino e coloro che vivono il vangelo senza avere una cultura classica si aiutassero fra loro per una maggiore pienezza di vita ecclesiale; ma so bene, purtroppo, che non a questo provvede il documento papale; e so anche meglio perché e per chi papa Ratzinger ha sancito il diritto a celebrare la Messa pre-conciliare. Questo “perchè” e questo “per chi” stanno non già nel fatto che vi sono persone le quali vedono nel latino una lingua tradizionalmente “cattolica”, segno di unità fra i credenti di tutte le nazioni, ma nel fatto che alcune centinaia di migliaia di individui (dunque una men che minima parte di quel miliardo e 200 milioni di persone che gli statistici calcolano battezzate nella Chiesa cattolica) dietro questo sentimento mascherano (ma neppure troppo) l’odio per la primavera conciliare e il desiderio di perpetuare una serie di privilegi personali e di classe. E’ un vecchio clericalismo quello cui Benedetto XVI concede ora la vittoria: il clericalismo del prete solo all’altare, avanti a tutti come un generale, intento a pronunziare formule incomprensibili a chi lo ascolta (e dunque magiche) in una lingua che soltanto pochi “signori” conoscono; e in quella lingua misteriosa proclama persino le Scritture rendendole messaggio castale; un celebrante separato, nelle antiche basiliche, da un’area vuota e soprelevata chiamata presbiterio: la quale sembra oggi, dove non è stata “corretta”, una profonda ferita inferta all’unità dell’assemblea eucaristica. E la messa, “quella” messa, è infatti legata al singolo sacerdote, per cui la stessa idea di “concelebrazione” appare negata, con risultati che oggi appaiono persino comici. Ricordo la chiesa di un collegio straniero a Roma, visitata prima del Concilio: una grande sala circolare con una dozzina di cappelle laterali, in ciascuna delle quali un prete celebrava la “sua” messa mentre due poveri chierichetti si affannavano a correre dall’uno all’altro altare, qui porgendo ampolline e là rialzando pianete, a pochi metri di distanza scampanellando per annunziare la Consacrazione o recitando ad alta voce il confiteor... .
Era, quella di Pio V, una Messa resa affascinante nella solennità delle cattedrali, dallo sfolgorio di paramenti, dalla virtuosità di superbi cori, di musiche sconvolgenti (non sempre il gregoriano, anzi, ben più spesso, il barocco del dopo-Riforma); spettacolo talvolta indimenticabile nella sua teatralità ma sempre difficile da seguire con la preghiera; e ridotto spesso, nella pratica feriale delle più modeste parrocchie, a una sorta di borbottìo di un prete raggelato dalla sua anche simbolica solitudine. I fedeli, del resto venivano esortati ad “assistere “ alla Messa ed era normale sentirli dire: “Ho preso la Messa”, come qualcosa che era soltanto dono da ricevere e non atto consapevole.
3
Ma c’è anche di peggio ed è la composizione “sociale” dei gruppi cui Benedetto XVI ha steso la sua mano improvvisamente prodiga. Per quarant’anni Lèfebvre e i suoi fedelissimi hanno apertamente e fieramente avversato i documenti (e più lo spirito) del Concilio (che, non lo si dimentichi, è la massima espressione ecclesiale: i vescovi di tutta la Terra riuniti intorno al Papa), Attribuendo all’assise ecumenica le cause dello sfacelo del mondo e della Chiesa, i lefebvriani sono contro la libertà religiosa, contro l'ecumenismo, contro la democrazia, contro lo Stato di diritto, contro la laicità dello Stato e perciò hanno offerto e offrono una sponda religiosa alle peggiori formazioni politiche del nostro tempo. Basterebbe ricordare un altro vescovo che fu accanto al francese, il brasiliano Proença Sigaud: fondatore di un’associazione chiamata “Tradizione, Famiglia, Proprietà”, di fatto una specie di cappellania per latifondisti persecutori dei poveri e per generali delle dittature latino-americane. Non per niente i lefebvriani celebrano Pio V come il Santo della vittoria dei cristiani sull’Islam, quella battaglia di Lepanto che secondo loro andrebbe ripresa, non soltanto contro i musulmani ma contro tutto il mondo moderno. Per loro il latino è la lingua dei vincitori.
4
Raggelanti mi paiono anche le motivazioni portate da papa Ratzinger sulla sua decisione, notoriamente in contrasto con il parere della maggior parte dell’episcopato. La sua decisione sarebbe nata, egli dice, dalla preoccupazione per un eccesso di creatività (disordinata) da parte dei fedeli conciliari e dalla sofferenza che da esso scaturirebbe per molti, anche giovani, che hanno imparato ad amare i sacri misteri nella celebrazione che ne fa la liturgia tridentina. Argomento, a me pare, stupefacente: invece di invitare queste brave persone, questa èlite tanto sensibile a partecipare attivamente alla elaborazione di una liturgia più fedele ai dettami e allo spirito della riflessione del Concilio, si concede loro di mantenersi in una bolla di vetro, al riparo dei rischi della testimonianza cristiana nella storia, cioè a non tenere conto della riforma varata dall’insieme dei vescovi convocati da due pontefici. Per non tradire la riforma gli si concede di ignorarla!
La seconda motivazione del motu proprio papale è quello della volontà di riconciliazione nella Chiesa. Ora a me sembra che vi sia qui un’altra prova della cultura eurocentrica e classicheggiante dell’attuale pontefice e della sua scarsa, scarsissima e solo libresca conoscenza del mondo d’oggi. Gli pare doloroso (ed è ben giusto che così sia) uno scisma, anche se fortunatamente limitato nelle sue dimensioni perché coinvolge borghesi laureati francesi, svizzeri e italiani, e cerca di ricondurlo nell’alveo dell’ortodossia, ma sembra del tutto inconsapevole della sofferenza di grandi masse di povera gente prodotta da certe sue scelte prudenziali. Non ha detto, in occasione del tristissimo viaggio in Brasile, che la beatificazione di monsignor Romero sollecitata da milioni di campesinos, è rinviata a chissà quando per ragioni di opportunità? Queste opportunità sembrano esistere soltanto ai margini delle favelas o dei laboratori teologici segnati dal sangue dei nuovi martiri, come quello di Sobrino; e intanto in tutto il cosiddetto Terzo Mondo continua, e si ingrossa, l’esodo da una Chiesa che sembra incomprensibile e incapace di comprendere.
Non basta moltiplicare, secondo una recente ripresa dello stile di Giovanni Paolo II, la santificazione di preti e di suore d’antico stampo, né calcolare con la bilancia dei cortigiani le folle che si addensano in piazza San Pietro: la Chiesa di Cristo o è speranza alta, forza rinnovatrice della storia dei poveri, o continua a parlare la lingua dei vincitori.
Ettore Masina