LETTERA 123 - giugno 2007
di Ettore Masina
Noi vecchi siamo testimoni della storia e, in quanto tali, scomodissimi a noi stessi. Se apriamo un libro che racconta il passato, piuttosto che osservare i segni delle parole, risentiamo voci, odori, emozioni; e così quando, benché svegli, chiudiamo gli occhi, a fantasticare, come se fossimo sazi di realtà... In quei momenti, potrei descrivere in ogni particolare il volto di mia madre il giorno in cui mio padre partì per la guerra, il colore di cera dei piedi nudi di un partigiano ucciso, il pesante odore di montone delle grotte di Nazaret e di Betlemme abitate da profughi della guerra del ’48, il color frumento dei capelli di due piccoli mulatti della favela Maria da Conceiçâo di Belo Horizonte... E tuttavia, questo tessuto di giorni, di persone, di sentimenti, sorrisi e sogni che potrebbe essere un tesoro per certe solitudini che la vecchiaia, nonostante tutto, ci rovescia addosso, troppo spesso si trasforma, nei nostri racconti a chi è disposto ad ascoltarci o nei nostri vaniloqui, in penosi elenchi di lamenti e di speranze perdute. E’ come se volessimo infliggere al passato certe sclerosi che ci affliggono o indeboliscono.
Nel tempo che mi rimane spero di non precipitare mai in questa trappola e di poter continuare a testimoniare che la storia è ricca di eventi positivi, talvolta imprevisti e imprevedibili. Appartengo a una generazione che ha visto sorgere in tutta l’Europa un movimento popolare di resistenza al regime hitleriano che le vecchie classi dirigenti non avevano voluto sfidare; e cadere il nazismo e poi lo stalinismo e il colonialismo e l’imperialismo americano in Vietnam e il muro di Berlino, e le dittature latino americane... No, non si è realizzato il Paradiso in terra, il mondo ha immense aree di dolore e di miseria da redimere. Ma non si può tracciare una mappa per il nostro cammino registrandovi soltanto i burroni e i cimiteri. Quando mi è arrivata la notizia che le rivoluzione sandinista era stata sconfitta per eccesso di democrazia, mi è venuto da piangere, ma ero a Soweto, nella piccola casa di Mandela, libero da una settimana: ho imparato quel giorno che la storia ha luci ed ombre, è folle guardare soltanto le une o le altre.
Una tragedia che accompagna la mia storia è quella della Palestina. Ne ho studiato le cause e ne ho visto con i miei occhi gli effetti: non solo le immagini che la televisione ci mostra, accompagnate (parlo del TG1) da informazioni così unilaterali nel loro favoreggiamento della propaganda governativa israeliana che nessun telegiornale di Tel Aviv le metterebbe in onda: ma il pianto dei bambini e delle donne accanto alle case demolite dai bulldozers, gli ulivi abbattuti, gli uomini che raccolgono le vittime innocenti del killeraggio misssilistico israeliano, la vergogna dei check-points. Oggi, più che mai, questa ferocia nei confronti dei palestinesi celebra il suo trionfo: fosse ancora vivo Sharon, come gioirebbe di questa guerra civile fra palestinesi. Chi ha a cuore la pace, la giustizia, la grandezza dell’ebraismo e della sua cultura sente le sue speranze messe a prova. Ma non dobbiamo tradirle: grandi scrittori, da Grossman a Yehoschua, pacifisti, giornalisti israeliani vedono ormai chiaramente come non sia possibile costruire un futuro sulla violenza dei forti. Sono voci che risuonano nel cuore del popolo israeliano e sembrano diventare sempre più solenni, che in mezzo alle rovine annunziano l’imperiosa necessità della pace. Ascoltiamo una di queste voci, quella di Nurit Peled-Elhanan, premiata, anni fa, dal parlamento europeo con il Premio Sacharov per i Diritti Umani e la Libertà di Pensiero. Sua figlia Smadar, 13 anni, è stata uccisa un terrorista palestinese. Nurit ha visto in questa ferocia i segni della disperazione di un popolo soggetto a una spietata occupazione. Il discorso di cui do qui ampi stralci è stato pronunziato proprio in occasione di una cerimonia per ricordare i quarant’anni dell’occupazione
E’ un grande onore per me stare su questo palco accanto al mio amico e fratello Bassam Aramin, palestinese,, uno dei fondatori dei Combattenti per la Pace, gruppo di cui sono membri due dei miei figli, Alik e Guy. La scorsa settimana, martedì ad Anata e giovedì a Tul Karem, il movimento dei Combattenti per la Pace è riuscito ad organizzare due imponenti incontri e a reclutare 10.000 palestinesi alla propria causa – una lotta non violenta e congiunta contro l’occupazione, nella stretta collaborazione tra Israeliani e Palestinesi. Se non fosse per le leggi razziste dello Stato di Israele, tutte quelle migliaia di persone potrebbero essere qui con noi questa sera per provare una volta per tutte che abbiamo un seguito. Bassam e io, siamo tutti e due vittime dell’occupazione crudele che continua a corrompere questo Paese. Tutti e due questa sera veniamo a piangere il destino di questo paese che ha seppellito le nostre due figlie – Smadar , germoglio del frutto, e Abir , profumo di fiore,- assassinate a dieci anni di distanza, dieci anni che questo Paese ha riempito del sangue dei bambini: e il regno sotterraneo dei bambini su cui noi camminiamo, giorno dopo giorno, ora dopo ora, è cresciuto tanto da straripare.
Ma quello che unisce Bassam e me non è solo la morte a cui l’Occupazione ci ha condannato. Quello che ci unisce è soprattutto la fede e la volontà di crescere i figli che ci sono rimasti in modo che essi non permettano mai più che politici corrotti, avidi e affamati di potere e generali assetati di sangue e conquiste, abbiano dominio sulle loro vite e li mettano gli uni contro gli altri. Non permetteranno più che il razzismo, che si è diffuso in questo Paese, li conduca fuori dal sentiero della pace e della fratellanza. Perché solo quella fratellanza può abbattere il muro di razzismo che si sta costruendo davanti ai nostri occhi. Da quarant’anni il razzismo e la megalomania tiranneggiano le nostre vite. Quarant’anni durante i quali più di quattro milioni di persone non conoscono il significato di “libertà di movimento”. Quarant’anni in cui i bambini palestinesi nascono e crescono da reclusi nelle loro case, che l’Occupazione ha trasformato in prigioni, privandoli fin dall’inizio di tutti i diritti a cui gli esseri umani hanno titolo in quanto esseri umani. Quarant’anni durante i quali i bambini israeliani sono stati educati al razzismo di un tipo che, nel mondo civile, era rimasto sconosciuto per decenni. Quarant’anni durante i quali hanno imparato ad odiare i vicini soltanto perché sono i vicini, a temerli senza conoscerli, a vedere un quarto dei cittadini dello Stato come un pericolo demografico e un nemico interno, e a relazionarsi con gli abitanti dei ghetti creati dalla politica di occupazione come con un problema che deve essere risolto. Solo sessant’anni fa gli ebrei erano gli abitanti dei ghetti ed erano visti dagli occhi dei loro oppressori come un problema che doveva essere risolto. Solo sessant’anni fa gli Ebrei erano rinchiusi dietro orrendi muri di cemento elettrificati - in cima ai quali stavano torrette vigilate da uomini armati - e privati della capacità di guadagnarsi da vivere o di crescere i propri figli con dignità. Solo sessant’anni fa il razzismo esigeva il suo prezzo dal popolo ebraico. Oggi nello stato ebraico governa il razzismo, che calpesta la dignità delle persone, le priva della libertà e condanna tutti noi a vite d’inferno. Da quarant’anni il capo ebraico si è incessantemente inchinato in adorazione del razzismo, mentre la mente ebraica stava escogitando i modi più creativi per devastare, demolire e distruggere questo Paese. Questo è ciò che rimane del genio ebraico, ciò che è diventato Israele. La compassione ebraica, la pietà ebraica, il cosmopolitismo ebraico, l’amore per l’umanità e il rispetto per l’altro sono stati da tempo dimenticati. Il loro posto è stato preso dal razzismo. E’ stato il razzismo che ha motivato un soldato a premere il grilletto dall’interno del suo mezzo corazzato per sparare alla testa di Abir, mentre lei si addossava a un muro, impaurita dal blindato piombato nel cortile della scuola. E’ solo il razzismo che spinge i guidatori dei bulldozer a demolire le case con i loro abitanti dentro, a distruggere campi e vigne, a sradicare olivi centenari. Solo il razzismo può inventare strade la cui circolazione è stabilita in base alla razza, ed è solo il razzismo che motiva i nostri figli ad umiliare donne che potrebbero essere le loro madri e a fare violenza a persone anziane ai diabolici check-point, a picchiare giovani della loro stessa età che, come loro, vogliono portare la famiglia a fare il bagno al mare, e a guardare impassibili una donna partorire il proprio bambino sulla strada. E’ solo il puro razzismo che motiva i nostri piloti migliori a scaricare bombe da una tonnellata su edifici residenziali ed è solo il razzismo che permette a questi criminali di dormire bene la notte.
Perché il razzismo elimina la vergogna. Questo razzismo ha eretto per se stesso un monumento a propria immagine – il monumento di un brutto muro di cemento, rigido, minaccioso e invasivo. Un monumento che proclama al mondo intero che la vergogna è stata bandita da questo Paese. Questo muro è il nostro muro della vergogna, esso è la testimonianza del fatto che noi ci siamo trasformati da luce per le nazioni “ad un oggetto di disgrazia per le nazioni e il dileggio per tutti i paesi”
E questa sera dobbiamo domandarci: cosa ne abbiamo fatto della nostra vergogna? Come allontaneremo la disgrazia? Ma per prima e più importante cosa, come è che la vergogna non ci impedisce di dormire la notte? Come è che permettiamo che metà dei nostri salari vengano usati per compiere crimini contro l’umanità? Come è che siamo riusciti a ridurre la vergogna a due colonne sul quotidiano e a non dedicarle più dei pochi minuti che destiniamo ad una lettura frettolosa degli articoli di Gideon Levy e Amira Hass, come quando uno legge la cronaca di uno scenario già noto in precedenza? Come è successo che siamo riusciti ad impacchettare l’infinita sofferenza quotidiana, la fame, la denutrizione, i traumi dei bambini, l’invalidità, la condizione di orfani e il lutto in una parola alienante: “politica”? Com’è che i nostri figli camminano tronfi e fanno gli spacconi nell’uniforme della brutalità che indossano quando servono nell’esercito delle distruzioni e dei massacri?
Com’è che tutte le splendide istituzioni del mondo stanno a guardare e non riescono a fare una sola cosa per salvare un bambino dalla morte o rimuovere un blocco di calcestruzzo dal muro della vergogna? Com’è che tutte le organizzazioni per la pace e i diritti umani non riescono a fermare i gipponi delle Guardie di Frontiera che arrivano a terrorizzare e uccidere gli alunni delle scuole, e non sono in grado di fermare un bulldozer nel suo percorso per distruggere una casa con i suoi occupanti dentro, di salvare un albero di olivo dalla distruzione, o una bambina che si è persa mentre andava a scuola e si è trovata sulla traiettoria dei soldati dell’Occupazione?
Una delle risposte a queste domande è che lo Stato di Israele è capace di ridurre al silenzio e di paralizzare il mondo intero perché c’è stato l’Olocausto. Lo Stato di Israele ha acquisito il permesso di fare violenza su di una intera nazione perché c’è l’antisemitismo. Lo Stato di Israele sta causando il disastro esistenziale – economico, sociale ed umano - ai suoi cittadini e alla popolazione soggiogata e nessuno osa fermarlo perché una volta c’era Hitler. In questo stesso momento i sopravvissuti all’Olocausto stanno soffrendol’ignominia della fame in questo Paese.
Questa sera noi dobbiamo chiedere aiuto al mondo per liberare noi stessi dalla vergogna. Questa sera dobbiamo spiegare al mondo che se vuole salvare il popolo di Israele e il popolo palestinese dall’olocausto imminente che minaccia tutti noi è necessario che condanni la politica di occupazione, il dominio della morte deve essere fermato nel suo percorso. Tutti i criminali di guerra che svestono le uniformi e cominciano a viaggiare per il mondo devono essere arrestati, processati e messi in prigione invece di avere la possibilità di gioire dei piaceri della libertà, mentre si stanno ancora trascinando dietro un tintinnante salvadanaio pieno di crimini di guerra.
E per noi è arrivato il momento di smettere di consegnare i nostri figli ad un sistema educativo che radica in loro valori falsi e razzisti ed insegna loro che il proprio contributo alla società si riassume nel fare violenza ed uccidere i figli di altre persone. E’ venuto il momento per noi di spiegare loro che la popolazione di questo luogo non è divisa fra Ebrei e non-Ebrei come è scritto nei loro libri scolastici, ma in esseri umani che vogliono vivere in pace nonostante tutto, e persone che hanno perduto la loro umanità e ricavano piacere dalla distruzione e dalla devastazione. E’ venuto il tempo per noi di spiegare ai nostri figli dove vivono.
Oggi, mentre l’intero mondo civilizzato si diverte a denigrare e diffamare il sistema scolastico palestinese, non c’è un solo testo scolastico in Israele che presenti l’immagine di un palestinese come una persona normale moderna. Non c’è nessun libro scolastico in Israele che presenti una carta geografica che mostri i confini veri dello Stato. Non c’è nessun libro di testo in Israele in cui appaia la parola “occupazione”. I nostri figli vengono arruolati nell’esercito di occupazione senza conoscere il luogo in cui vivono, senza conoscere la sua storia e la sua gente. Entrano nell’esercito imbevuti di odio e paura. I nostri figli vengono educati a vedere chiunque non sia Ebreo come un Goy, l’Altro, che generazione dopo generazione cerca di distruggerci. Questa educazione rende facile ai vertici militari trasformare i nostri figli in mostri.
Quindi l’unico modo per impedire che i nostri figli diventino strumenti nelle mani della macchina di distruzione è raccontare loro la storia di questo luogo, disegnare per loro i suoi confini, aiutarli a conoscere i vicini, la loro cultura, le loro usanze, la loro gentilezza e i loro diritti sulla terra dove hanno vissuto per molte generazioni prima che i Pionieri sionisti arrivassero nella Terra Promessa di Israele. E soprattutto insegnare loro a non sottomettersi alla Stato, a non rispettare la sua autorità, perché questo Stato è governato da ladri e opportunisti, che non controllano i loro impulsi, né quelli sessuali né altri, persino nei tempi più neri e reggono questo Stato secondo le leggi della Mafia: “Tu hai ucciso uno dei miei – io ucciderò un centinaio dei tuoi. Tu mi hai lanciato una bomba fatta in casa – io sgancerò un centinaio delle bombe più distruttive e sofisticate del mondo che non lasceranno neanche una traccia di te, della tua famiglia e dei tuoi vicini. Tu hai bruciato una delle mie auto così io brucerò una delle tue città.” Questa è la logica del mondo della criminalità.
Questa sera dobbiamo pensare a quelli che sono condannati a morire n ftro e a quelli che sono condannati a cadere nel crimine sotto la copertura della legge e dell’uniforme. Dobbiamo salvarli tutti. Dobbiamo insegnare a tutti loro a non obbedire a degli ordini che, anche se sono legali secondo le leggi razziali di questo Stato, sono manifestamente e chiaramente inumani.E soprattutto, questa sera dobbiamo fermarci un attimo, tutti noi, e guardare il viso della piccola Abir Aramin, la sua testa colpita alla nuca da un proiettile, il cui assassino non si troverà mai di fronte ad un processo in questo Paese e non verrà mai punito nel modo in cui merita, e domandare a noi stessi,
Perché quella striscia di sangue lacera il petalo della sua guancia ...
Traduzione di Gabriella Cecilia Gallia
Anna Achmatova
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