San Floriano, Pentecoste 2009
E’ buona educazione, me l’ha insegnato mio padre, rispondere alle lettere che si ricevono. In questi giorni due ne ho lette da parte tua, indirizzate anche a me, e proprio a me perché sono sacerdote da 54 anni. Tu le hai firmate: cardinale Claudio Humes prefetto della congregazione del clero. Sono state pubblicate da “Avvenire” del 27 e del 29 maggio.
Veramente la prima si rivolge all’Eminenza/Eccellenza reverendissima/ A loro essa ricorda chi siamo noi sacerdoti.
“Come vostra eminenza/eccellenza potrà constatare....” E poi ancora li interpella
“Eminenza/Eccellenza non mancherà di porre in atto, in spirito di cordialità collegiale ogni opportuna iniziativa...”
La seconda è più breve e diretta a noi: Cari Sacerdoti...
Desidero ringraziarla e assicurarla che è proprio questa chiesa cattolica dell’anno 2009 che io amo e che ogni giorno mi arricchisce di sogni che tengono viva la Speranza e gioiosa l’attesa dell’Incontro. Lei scrive che l’anno sacerdotale che si apre il 19 giugno sia “un anno positivo e propositivo... Un anno di rinnovamento della spiritualità del presbiterio e dei singoli presbiteri”.
Sento di ravvivare la fiducia che Lei ha comunicato esprimendo quello che tanti anni di sacerdozio hanno suscitato riempiendomi di gratitudine e dialogando un po’ con lei in clima di serenità e nella sincerità della parresia le affido il senso che hanno per me le sue affermazioni: “Si tratta di un evento non spettacolare, ma che si vorrebbe fosse vissuto soprattutto come rinnovamento interiore, nella riscoperta gioiosa della propria identità, della fraternità del proprio presbiterio, del rapporto sacramentale con il proprio vescovo”.
Nei miei sogni coltivo la speranza che le prime sommarie indicazioni si facciano sempre più segni concreti, semplici,quotidiani, in modo da aiutarci non solo a una conversione personale, ma anche a una costante conversione delle strutture ecclesiastiche che rendono tante volte difficile l’evangelizzazione in questo nostro tempo.
“Le strutture di peccato” nel mondo e nella chiesa diventano impedimenti alla salvezza del mondo, Il vangelo di Marco ci invita non solo a diffondere la Parola, ma a renderla visibile nei segni che essa produce: “quelli che avranno fede, faranno segni miracolosi...”
Giovanni XXIII ci ha aiutato a vivere la nostra spiritualità nell’accogliere e nell’obbedire ai “Segni dei tempi”.
Noi preti siamo frastornati da istruzioni, convegni, proposte, assediati dagli impegni più vari e a volte più strani. Ho sempre presente come luce che illumina le mie scelte l’intervista del Cardinale Ratzinger nel Regno-Attualità 4 del 1994. Ci aiuta a superare il pericolo di quei documenti che si moltiplicano, che pochi leggono e che sviano dall’essenziale. Trascrivo le sue parole per la loro attualità: “Quanto alla sua riflessione su Dio, mi sembra innegabile che esista un po’ troppa auto-occupazione della chiesa con se stessa. Essa parla troppo di sé, mentre dovrebbe di più e meglio occuparsi del comune problema:trovare Dio e trovando Dio trovare l’uomo.
Ciò che manca oggi non sono prima di tutto le nuove formule, ma si è piuttosto obbligati a constatare un’inflazione di parole che non hanno copertura di risorse auree.
Mi sembra tutt’ora innegabile una produzione eccessiva di documenti. Se la situazione della chiesa dipendesse dalla quantità di parole, avremmo oggi una fioritura ecclesiale mai vista... Sarebbe invece necessario darsi un tempo di silenzio, di meditazione e di incontro con il reale, per maturare un linguaggio più fresco nato da un’esperienza profonda e viva più capace dunque di trovare il cuore degli altri”
Non si potrebbe descrivere meglio e dare più importanti indicazioni per inoltrarci nel cammino di questo anno sacerdotale. E i segni mi sembrano attraenti e concreti.
Noi sacerdoti dobbiamo farci carico dei nostri vescovi. Anche loro sono sacerdoti e hanno bisogno di condividere con noi il cammino di libertà dei figli di Dio. Mi fa ancora sorridere un’assemblea di preti della mia diocesi in cui dialogavano il nostro vescovo e il cardinale Poupard. Sembrava una sfida di fioretto tanto era l’intensità nel tener alto il ruolo: Eminenza, diceva il Vescovo, Eccellenza riprendeva il Cardinale. Gesù diceva semplicemente “vi ho chiamati amici”. Nel quarto volume della”Storia del Concilio Vaticano Secondo” Alberigo riporta la proposta di un vescovo di abolire questi titoli. Ma non se ne è fatto niente. Si dirà che queste sono delle stupidaggini, ma come mai allora non riusciamo ad eliminarle?
Ancor più i nostri vescovi successori degli Apostoli devono essere aiutati a liberarsi di tanti inutili pesi. Il vescovo Helder Camara suggeriva a Paolo VI di lasciare il vaticano, licenziare la sua corte e vivere con maggiore semplicità più vicino agli uomini e alle donne.
I nostri palazzi vescovili sono onerosi monumenti che creano distanze e favoriscono rapporti più formali che personali. Potrebbero eliminare gli obblighi di rappresentanza che li sottomettono a una visibilità stressante come inaugurare asili, benedire banche, essere maestri tuttologi nei convegni e nei seminari. Sono persone umane e li rispettiamo nella misura in cui li aiutiamo ad esserlo nella quotidianità. Leggiamo negli Atti degli Apostoli: (6,2-4)
Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: <
Sarebbe bello che non avessero più alcuna responsabilità economica e a laici competenti fosse trasferito il necessario impegno e la piena responsabilità della gestione economica della chiesa locale. Un’aria nuova di libertà soffierebbe anche nei parroci, obbligati a prendersi per legge il peso di funzionamento delle opere parrocchiali: canoniche, asilo chiese ecc.
Potrebbe essere profetico questo anno sacerdotale nel senso di creare segni di comunione che rinnovano la nostra vita di presbiteri. Penso per esempio all’attrattiva del celibato che non ha nessuna parentela con la moda dei singles.
Da anni vivo con Marisa, non la serva del prete, ma un’amica ricevuta come dono gratuito. Portando la sua dote di femminilità e la sua esperienza educativa, mi aiuta ogni giorno di più a crescere nella reciprocità e a vivere nella grazia dell’amicizia, Così il nostro vivere diventa ricco di umanità ed aperto all’accoglienza di tutti. E’ un segno evangelico che ci porta a camminare insieme con il gruppo famiglie, a condividere con chi cerca il senso della propria vita e della fede, dal Marocchino che riprende a sperare in Allah e a frequentare la moschea, a Razia che ogni anno viene
dal Pakistan dove, unica donna nella sua diocesi, si occupa della liberazione delle donne. E’ la lettura popolare della Bibbia come l’abbiamo imparata nelle comunità di base del Brasile che ci occupa sia nei centri di ascolto parrocchiali, sia nel gruppo a livello diocesano del Segretariato di Attività Ecumeniche (SAE). E’ la porta aperta a tanta gente che ci aiuta a cercare insieme la Presenza del Consolatore in una umanità sempre più sofferente. Ho imparato così a vivere l’attrattiva del celibato, a non vederlo come problema, ma a riconoscerlo come attrattiva e forza di comunione. Certamente fa parte della spiritualità del prete e di tutta la chiesa e mi sembra che nella chiesa, in modo sereno e trasparente vada affrontato anche perché è grande risorsa ad accogliere quel segno dei tempi che la Pacem in Terris indica nell’umanità di oggi cioè la dignità della donna. E’ necessario nella chiesa il superamento concreto del maschilismo che tra l’altro blocca la persona del prete.
La nostra spiritualità domanda una crescita di comunione vera con tutti e con tutte, un cammino di umanizzazione da vivere sempre più incarnati in questa società.
Le diocesi si muovono verso forme organizzative nuove. Stanno emergendo soluzioni come le unità pastorali. E’ delicata ogni soluzione. Una riforma per razionalizzare e rendere l’azienda chiesa più efficace e concorrenziale della società laica, può risultare illusoria se non dannosa. Vivere la Parola incarnata è segno di salvezza e produce segni concreti e visibili. “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato... questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono nel mio nome” (Mc 24,14-18) Decidere e pianificare dall’alto senza coinvolgere tutta la chiesa, fare progetti fidando negli esperti e calandoli sulla base non è automaticamente segno di vita.
Gesù le dice: ”Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre.Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”.(Gv 4,21-24)
Se noi preti non cresciamo camminando insieme con la gente “fratelli tra i fratelli” (VAT.II P.O). Se usi e costumi del nostro vivere non sono chiaramente alternativi alla cultura normale, tutte le nostre esortazioni diventano luoghi comuni. Le comunità che subiscono le nostre decisioni diventano interessate solo all’efficienza dei nostri servizi. Penso alla nomina dei parroci, alla nomina dei vescovi cui resta totalmente estranea la comunità. Per rinnovare la nostra spiritualità di preti diocesani, c’è bisogno di cambiamenti strutturali profondi, che favoriscono rapporti nuovi di fraternità semplice, vera e trasparente. C’è bisogno che le parole diventino fatti, che la fede ispiri ricerche comunitarie che coinvolgono tutto il popolo di Dio non come consumatore, ma come produttore. Il cardinale che è diventato Papa avverte che “la chiesa è comunione di persone che per l’azione dello Spirito formano il popolo di Dio che è al tempo stesso popolo di Cristo.
Chi identifica Chiesa e gerarchia e chi riduce il popolo di Dio a un’idea sociologica contraddice la parola e lo spirito del Vaticano Secondo”. (Benedetto XVI in Avvenire 29 maggio 2009 p.18).
Permettimi un’ultima citazione che ci aiuta a rendere attraente e importante la nostra professione di preti e riempie di senso la nostra quotidianità. Diceva Papa Benedetto XVI nell’udienza di mercoledì 27 maggio: “Per Teodoro Studita una virtù importante al pari dell’obbedienza e dell’umiltà è la philergia cioè l’amore al lavoro in cui egli vede un criterio per saggiare la qualità della devozione personale: colui che è fervente negli impegni materiali, che lavora con assiduità, lo è anche in quelli spirituali”
Ho tentato di affidarti tante speranze e condividere la tua responsabilità soprattutto nel tuo lavoro per noi preti di cui ti ringrazio.
Se per caso passi nei nostri territori o hai voglia di respirare un po’ d’aria diversa da quella della città eterna, nel nostro Veneto e in casa mia l’ospitalità è sempre un dono grande che riceviamo.
Buon lavoro e cordiali saluti