venerdì 28 dicembre 2007

Anch'io Signore

Un bellissimo regalo di Natale dell' amico don Olivo


Anch'io Signore,

come il vecchio Simeone.

Anch'io Signore nel tempio

come il vecchio Simeone.

Anch'io Signore

come il vecchio Simeone

abito nel tuo tempio.

Anch'io Signore

sacerdote del tempio

sono nel tempio.

Anch'io Signore,

come il vecchio Simeone

ho consumato

la vita nell'attesa.

Ed ora nel passo vacillante

esulta lo spirito

e come il vecchio Simeone

ti ho conosciuto tra le mie braccia.

Anch'io Signore

come il vecchio Simeone

ho consumato nel tempio

la vita come attesa

ed ora sono qui

e con me c'è Anna la profetessa

e insieme

ti stringiamo nelle nostre braccia.

Sei tu colui che abbiamo atteso

ed ora sei tu il nostro presente.

Sei tu ora ad attenderci

e non c'è luogo

e non c'è tempo

dove tu non sei.

Come il vecchio Simeone

e Anna la profetessa

ci sentiamo avvolti in un unico abbraccio

perché tu sei Presenza

oltre ogni tempio

e sei Presenza

come vita

di ogni nostra vita.

Olivo Bolzon

Natale 2007

Essere prete quando si fa sera

di Giulia Cananzi

Una casetta di fianco alla chiesa di San Floriano (TV), mobilio essenziale, cimeli etnici, segni d'incontri e viaggi. Sul tavolo, sproporzionato per il piccolo soggiorno, cumuli di carte, opuscoli di un prossimo incontro, qualche libro. Nel cucinino adiacente, Marisa, capelli candidi e sorriso contagioso, sta preparando il bollito per un numero imprecisato di commensali. In fondo, potrebbe sempre arrivare qualcuno. Da quando don Olivo Bolzon, parroco di San Floriano per sette anni - gli ultimi da prete «attivo» - è andato in pensione, il suo porto di quiete è diventato un porto di mare. Da lui si può incontrare il prete algerino, l'attivista dei diritti umani pachistana, la coppia di fidanzati, il curdo spaesato in cerca di un nuovo futuro. Nonostante il «cuore matto» - ha avuto un infarto durante un viaggio in Russia assieme ai parrocchiani, uno dei tanti fatti per aprire testa e cuore «perché l'anima si nutre anche di conoscenza» - la mente è rimasta un vulcano. E via al progetto di accoglienza per gli immigrati, al gruppo famiglie giovani, ai libri scritti seguendo la sua grande passione: l'ecumenismo. E poi gli articoli, i viaggi, i dibattiti pubblici e soprattutto, lo scambio con la gente comune. Da un anno, insieme ad altri preti e religiosi in pensione, partecipa a una nuova iniziativa: «Ci incontriamo una volta al mese, parliamo di noi, di come viviamo la nostra condizione di preti senza ruolo, delle nostre relazioni con gli altri. Ognuno di noi ha una storia, un vissuto. Ci siamo chiesti che carisma particolare potevamo donare noi, che non contiamo più niente, alla società e alla Chiesa. La nostra memoria può ancora confortare e consigliare, essere sapienza, alimentare vita?». E don Olivo di vita ne ha molta nella sua bisaccia: ha fatto parte dell'Onarmo (Opera nazionale religiosa e morale per gli operai); «era il tempo in cui la nostra società da agricola diventava industriale: nel passaggio rischiavamo di perdere lo stretto contatto che la Chiesa aveva con i lavoratori del mondo contadino»; poi è migrato in Belgio per conto delle Acli come rappresentante dei cattolici nei rapporti con il Mercato Comune: «Sono arrivato dopo la tragedia di Marcinelle (avvenuta l'8 agosto del 1956: 262 minatori morti, 136 erano italiani). All'epoca c'era un patto tra i governi: gli emigranti italiani potevano scegliere solo di lavorare in miniera per i primi cinque anni. I minatori erano gente speciale. Facevano il lavoro più duro che io avessi mai visto, eppure erano un'aristocrazia nel senso morale del termine». Quattro anni dopo, il ritorno in Italia come membro del Comitato italiano per l'America Latina nel pieno del Concilio Vaticano Il e del tentativo di incarnarlo da parte dei vescovi profeti: Camara, Fragoso, Romero. Poi eccolo ricominciare: prete operaio a Spinea nel veneziano, grande quartiere dormitorio delle fabbriche di Porto Marghera, futura locomotiva del Nord Est. Infine a Roma, alla Società biblica, per la traduzione e la diffusione della Bibbia interconfessionale. Don Olivo è uno dei tanti frammenti di storia della Chiesa che si aggirano nelle nostre diocesi senza più un ruolo ufficiale; sono tra questi i testimoni del fascismo e della guerra, dell'industrializzazione e del Concilio, i custodi della fede all'inizio dell'epoca moderna sempre più tormentata e secolarizzata, i precursori della globalizzazione della fede, prima che dell'economia. Saranno sempre di più in una manciata di anni. Una recente ricerca compiuta dalla Fondazione Agnelli per conto della Cei, rivela che il 42,3 per cento dei preti ha più di 65 anni, il 12,8 più di 80; i quarantenni sono solo il 18,6 per cento, mentre l'età media delle ordinazioni - analogamente a quanto succede per il matrimonio nella società -è salita a 31 anni contro i 22-24 anni di qualche decennio fa. La Chiesa invecchia e, al pari della società, si trova ad affrontare le conseguenze che questo comporta. Un problema o una sfida?

La sfida dell'inutilità

Don Olivo non ha dubbi: è una sfida da cogliere. Per i singoli, per la Chiesa e per la società. «Sia il mondo civile che quello religioso ha la tendenza a non far più conto su di noi. Noi invece auspichiamo, sia per noi che per i nostri fratelli laici, una vita da soggetti che ancora possono dare, non da oggetti bisognosi di assistenza. Ha più senso ed è anche più economico». Ma che cosa succede a un parroco super indaffarato che all'improvviso si ritrova dal pulpito alla panchina davanti al sagrato? «È uno shock che può uccidere. Non solo non hai più un ruolo ma entri in una profonda solitudine. C'è chi non riesce più a riprendersi. Se però scendi i gradini della chiesa, ti fermi fuori dopo la funzione con i tuoi ex parrocchiani, riscopri un mondo». Ora che la vita non ha più impegni fissi né giorni di ferie comandati, ci si può fermare a riflettere e a vedere le contraddizioni. La parrocchia, al pari della società, si è nel tempo appiattita sull'efficienza. Tutto con puntualità: dal battesimo al funerale. Se lo aspettano i parrocchiani, te lo impone il ruolo. Tutto funziona ma l'anima soffre, la gente partecipa ma nello stesso tempo è lontana. «L'inutilità mi ha spogliato. Non ho più nulla da difendere, non ho più nulla di materiale da dare. Sono solo ciò che posso testimoniare. Ho alle spalle un passato ma ho davanti una libertà immensa, la libertà d'essere solo Parola. Chi mi viene a cercare non lo fa per ottenere qualcosa ma per condividere. E d'improvviso entri nel cuore della gente, come non ci sei mai entrato prima. Cammino insieme a loro come all'inizio della mia vita di prete. Ecco, noi anziani vorremmo che il nostro non contare fosse una risorsa per la Chiesa». Suona il telefono: Marisa in punta di piedi lascia i fornelli e va a rispondere. L'ennesi-mo impegno per lei e don Olivo. Quel minisoggiorno dal grande tavolo, ormai è chiaro, è una piccola comunità. L'anziana sta per tornare alle sue incombenze quando don Olivo la chiama. «Nell'inutilità ho scoperto anche il valore fondante dell'universo femminile e quanto la Chiesa sia incapace di valorizzarlo. Maschio e femmina li creò e non a caso. Non possiamo essere compiutamente uomini se non possediamo in noi anche le virtù femminili». Marisa sorride, sotto i suoi riccioli candidi. Passano insieme i pomeriggi accogliendo, discutendo animatamente, scrivendo al computer. Anche lei ha il suo passato a servizio degli altri: prima la difesa dei diritti dei lavoratori, poi tanti anni d'insegnamento nelle scuole sperimentali per i figli degli agricoltori. Anche lei in pensione, anche lei «inutile». Si sono seguiti negli anni a distanza ognuno con le sue lotte e con le sue fatiche, la vita li ha fatti rincontrare in questo soggiorno. Tra loro, è tangibile, c'è una comunione di fede, d'interessi, di valori. Un celibato liberato dal pregiudizio e dalla paura del confronto, una capacità di andare oltre che hanno solo quelli che si sentono davvero liberi. Suona il campanello: ci sono ospiti. Vuoi fermarti a mangiare?

Un abbraccio, una parola, le sedie che si spostano intorno al grande tavolo. Sì, l'inutilità è l'ultimo dono.

da Il Messaggero di S. Antonio dicembre 2007

giovedì 27 dicembre 2007

Lettera 128

Dicembre 2007

di Ettore Masina

1

Fine d’anno 2007: mentre cerchiamo di rendere le nostre case più allegre e festose, con sorrisi di parenti e di amici e voci di bambini, la cronaca appende ai nostri alberi di Natale certificati di comparizione in tribunale e bollettini medici di prognosi riservata. Provo a elencare: a Bali, ancora una volta, Wall Street e Bush hanno deciso che la Terra può andare in malora purché l’industria americana non debba ridimensionare i suoi profitti; in non poche nazioni, compresa la nostra, i sistemi politici sembrano da rottamare per eccesso di astuzie (o credute tali); la società italiana – ci avverte autorevolmente il Censis - è ormai mucillaginosa, cioè disgregata e confusa; nel nostro paese riprendono slancio gli amanti del nucleare, eccetera eccetera. Fatti incontrovertibili, descrizioni dell’oggi, impietose ma non esagerate; e tuttavia c’è di peggio, a me sembra, e il peggio riguarda il futuro: da cattedre molto autorevoli veniamo avvertiti che la speranza è una patologia mentale se non porta un bollino di garanzia da esse rilasciato. Nella sua recente enciclica il Papa esclude che le speranze umane abbiano un vero valore se non si fondano in Cristo, e – forse senza saperlo - Salman Rushdie, scrittore fra i più importanti della nostra epoca, gli risponde che le speranze proposte da quelli che egli sprezzantemente definisce “i preti” sono inganni micidiali e pesti fondamentaliste.

Il messaggio che si ricava da questi interventi è dunque che la speranza sine glossa - quella dei bambini, degli analfabeti, dei poveri, dei poeti, degli atei (tali per estenuazione, per scandalo o, più semplicemente perchè nessuno gli ha mai parlato di Dio), - è stupidità, miopia culturale o rimbambimento. Che ve ne pare?

2

Quanto a me, io penso che le persone importanti vadano ascoltate con reverente attenzione, soprattutto quando ci mettono in guardia dalle sciocche illusioni di chi si affida a un Babbo Natale della storia o al dio tappabuchi di cui parlava Bonhoeffer; e però, quando i Grandi ci esortano a gettare le nostre speranze nei cassonetti dell’immondizia ideologica mi pare psicologicamente ed eticamente sano stabilire fra loro e me un certo distacco. Benché la mia lunga vita sia stata ferita, più e più volte, anche crudelmente, dal crollo di apparenti certezze, non ho nessuna intenzione di rinunziare alle mie speranze, a costo di soffrire, poi, per la loro mancata realizzazione. Stare accanto a chi vuole un mondo migliore e lo ritiene possibile significa dare alla propria vita una qualità che il realismo dei profeti di sventura, come li chiamava papa Giovanni, non consente. E’ come vivere dei grandi amori dei quali non dimenticheremo mai le dolcezze e il calore; qualunque sia il destino di queste esperienze, il rimpianto per ciò che poteva essere e non fu non sbiadisce la certezza di avere avuto attimi di gioia, di essere cresciuti “dentro”; e gli errori compiuti non cancellano la grandezza di sogni e sentimenti che ci stanarono dalla solitudine del nostro egoismo.

3

Penso alla speranza come al respiro della storia, quella individuale e quella universale. “L’ottimismo della volontà, contrapposto al pessimismo della ragione”, la definiva Gramsci, dal buio del carcere in cui il fascismo lo faceva morire poco a poco. La speranza non nasce soltanto dalla ragione ma anche da una misteriosa propensione che forse è inscritta nella natura umana. Il grande La Pira, sul quale si abbattè tante volte il sarcasmo dei politici senza ideali, ne parlava, da mistico, come di una navigazione su mari perigliosi, in cui, nonostante le tempeste, il timoniere sente che la sua rotta è accompagnata da un forza positiva. Talvolta quella forza appare come una deriva, ma sempre sospinge verso orizzonti di luce.

4

Se il respiro della storia è avvelenato dagli inquinamenti della violenza (quella brutale delle guerre e del terrorismo in tutte le sue versioni e quella più sottile ma non meno orribile della cosiddetta “difesa della democrazia e della libertà”: Guantanamo e dintorni, per intenderci), molte speranze hanno vita breve; ma è sorprendente vedere come subito altre fioriscano. L’ho già raccontato più volte ma non mi stanco di ripeterlo perchè mi pare emblematico: la notizia che i sandinisti avevano perso le elezioni e che quindi il Nicaragua sarebbe precipitato nuovamente nella miseria, mi giunse a Soweto mentre stavo per incontrare Mandela, appena liberato dopo tanti anni di carcere: una speranza veniva schiacciata da Reagan e un’altra dispiegava le ali. Mi pare che questo avvenga in tutti i tempi: in questi giorni, per esempio, mentre, se non spenta, almeno “contenuta” sembra la rivoluzione zapatista, i popoli indigeni della Bolivia e dell’Ecuador lottano per riscattare la loro storia di oppressione; e la vicenda della moratoria per la pena di morte mostra come speranze apparentemente assurde possano d’un tratto sbocciare in conquiste politiche di grande rilievo.

L’anno prossimo compirò ottant’anni; se osservo la carta geopolitica della Terra così com’era disegnata quando sono nato (l’Africa e l’Asia schiacciate dalla ferocia del colonialismo, l’America centromeridionale ridotta a un grappolo di repubbliche delle banane, in Italia il fascismo, in Unione Sovietica la sedicente dittatura del proletariato, la Germania spinta dalla miseria verso il nazismo, il Portogallo nelle mani di Salazar, nell’Europa orientale un coacervo di regni da operetta, milioni di italiani, irlandesi, greci, polacchi costretti a un’emigrazione che, nella sua disperata inermità, prefigurava quella odierna dei popoli del Sud, la tragedia negra negli Stati Uniti, la condizione femminile ovunque segnata da una feroce minorità eccetera) posso tracciare facilmente un censimento di speranze che allora apparivano al limite della follìa ma che hanno mutato il mondo. Ottusa è la cultura della realpolitik, aveva ragione Paolo VI, invece, quando diceva che vi sono periodi della storia in cui l’utopia è l’unico realismo possibile.

4

Se la speranza risulta così odiosa a chi pretende di dirigere la storia è proprio perchè essa contiene una dose di irrazionalità, non si lascia smentire dall’evidenza, non cessa di respirare nelle carceri e nei lager, almeno sin quando un uomo riesce a rimanere tale. La speranza non soggiorna nelle corti dei Potenti né si esibisce sui palcoscenici dei Filosofi. Veste il grembiule di una bambina (Mounier parlava della piccola speranza che ci dà il buongiorno ogni mattina) piuttosto che i paramenti di un gran sacerdote o le decorazioni di un generalissimo. Possiamo trovarla e dialogare con lei nelle favelas, nelle carceri e negli ospedali piuttosto che nei saloni dei congressi o nelle grandi assemblee dei partiti al potere o nei solenni pontificali delle basiliche. Non nei grandi luoghi dove la Storia con la S maiuscola è l’invitata d’onore ma dove la “piccola” gente - magari al di là delle transenne poste dalla polizia a tutela dei Grandi - lavora, soffre, e ama. E’ qui, in questi luoghi ignorati dai telegiornali ma notissimi a Dio che, a me pare, il Papa avrebbe potuto trovare materiale prezioso per la sua recente enciclica sulla speranza. Come dice il pastore Paolo Ricca, “Se vuoi udire la parola di Dio, porta attenzione alla parola degli uomini… Non in voci celesti, in rivelazioni straordinarie, in esperienze eccezionali parla il Signore, ma preferibilmente nel mondo del quotidiano, nella normalità di esistenze comuni”.

5

Quando ho letto che Benedetto XVI avrebbe pubblicato un suo documento sulla speranza, ne sono stato felice, il tema della speranza sembrandomi centrale nella vita della Chiesa. “Siate pronti a rendere ragione della speranza che è in noi” ci esorta san Pietro. E pensavo che papa Ratzinger si sarebbe rivolto all’umanità intera, essendo la mancanza di speranza un profondo malessere che connota il nostro tempo. Pensavo anche (presuntuoso come sono!) che egli, dall’alto della sua cattedra, avrebbe mostrato come un germe del Regno di Dio sia presente in tutti i luoghi in cui gruppi di persone lavorano, rischiano e soffrono per un mondo migliore. Del resto, molte speranze “soltanto umane” sono tali perché la Chiesa, in alcune epoche e vicende, le ha avversate come estranee alla fede. “Poiché nelle chiese veniva proclamato un dio senza speranza, i poveri andarono a trovare speranze senza Dio” ha scritto il teologo Moltmann. Il grande peccato della Chiesa pre-conciliare è stato quello di dimenticare il criterio fondamentale del Giudizio di Dio, quello della liberazione dei poveri: Matteo XXV, 31-46. Ma il Papa, che al Giudizio ha dedicato un lungo paragrafo della sua enciclica, quel vangelo non lo ha citato.

6

Quando Giovanni XXIII ha voluto parlare al mondo di un problema mondiale – la pace -, ha indirizzato la sua enciclica non soltanto ai cattolici e neppure soltanto ai cristiani ma a loro e a” tutti gli uomini di buona volontà”. Un documento acquista validità specifica in base al soggetto cui è rivolto. Il mondo intese l’appello di papa Roncalli, lo pubblicarono nelle loro prime pagine persino i giornali sovietici. L’enciclica di Benedetto XVI è indirizzata “ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici “. Un documento interno alla Chiesa? Un discorso a porte chiuse?

No: le porte sono silenziosamente aperte anche ai filosofi e agli storici, le due categorie di persone alle quali papa Ratzinger guarda come al sale della Terra. Accanto ai grandi santi compaiono Platone e Bacone, Kant, Engels, Marx, Lenin, Adorno, Horkheimer... Compaiono le loro teorie, che vengono riassunte e confutate con serena e acuta sensibilità. Il disegno ideologico - e dunque l’asfissia - di certe speranze, catturate e distorte da intellettuali senza umiltà viene pacatamente denunziato. Ciò che manca nel documento papale è l’attenzione al dramma e alla santità di milioni di persone che affrontarono immensi pericoli e sofferenze – o addirittura andarono a morire - perché i più poveri avessero dignità e i figli non fossero segnati da antiche oppressioni. Il secolo XX non è stato soltanto la terra del nazismo, dello stalinismo, del capitalismo selvaggio ma anche della meno vistosa ma non meno gigantesca epopea dei resistenti alla violenza dell’uomo sull’uomo e dei conquistatori di nuove libertà.

Non erano cristiani? Le lotte dei poveri del secolo scorso cominciano con i campesinos messicani che marciano sulle città inalberando stendardi con la Madonna di Guadalupe, e con i servi della gleba russi che scendono in piazza dietro i pope che levano la croce contro i cosacchi della repressione. Anche se gli ecclesiastici non lo compresero, un cristianesimo naturaliter tale, sotterraneo, inconsapevole segnò moltissimi, forse tutti, dei resistenti: “Vado a preparare domani che cantano” scrive un maquìs comunista”. Nelle camere di tortura e fra le rovine dei villaggi devastati per rappresaglia, le speranze continuano a vivere anche quando le loro parole sono come annegate dalle lacrime. Cristiane o no? “Domanderanno: quando mai Signore ti vedemmo?”. E Lui sorriderà abbracciando questi suoi figli prediletti,

7

Credo che noi cattolici dobbiamo pregare per questo nostro papa e Natale è un buon giorno per farlo. Egli sembra racchiuso, come certi antichi orologi, in una campana di vetro che impedisce che vi entri la polvere (la polvere della storia, nel suo caso: le grida di dolore e quelle di gioia di tanta parte dell’umanità). Desideriamo che l’Angelo dei pastori (non si definisce pastore anche il papa?) lo stani dal suo vegliare fra i libri e lo spinga là dove risuona incessantemente il grido che ogni cristiano dovrebbe fare suo: “ O voi che giacete nella polvere, alzatevi e cantate”.

Cari saluti

Ettore Masina

venerdì 7 dicembre 2007

Quando eleganza e bellezza possono vincere la ferocia

di FRANCESCO MERLO

SOLO dei guerriglieri marxisti, con le bombe esplosive nelle tasche e le bombe ideologiche nella testa, possono non capire che la bellezza di Ingrid Betancourt li ha già seppelliti tutti. Guardatelo ancora quel video, meno di trenta secondi su Youtube, e, senza pensare di essere diventati dei fiancheggiatori - fiancheggiatori estetici - , liberate pure il vostro cuore.


E ditelo anche voi, insieme con noi, che Ingrid Betancourt in 2107 giorni di prigionia è diventata più bella, che non era mai stata così bella. E che tutto il marxismo del mondo, quello scritto e quello orale, non può competere con l'eleganza della rozza tunica bianca che copre quel corpo esile e disarmato. Contro la ferocia della rivoluzione qui c'è l'arma dell'eleganza che nessuna modella d'alta moda riuscirebbe ad eguagliare, un'eleganza che per un rivoluzionario è micidiale perché in pochissimi secondi sbriciola la durezza dell'astio sociale.


E, ancora, in quelle mani di porcellana che s'intrecciano ci sono la compostezza e la fragilità di milioni di donne maltrattate: quelle mani sono le mani di tutte le donne del mondo, le mani della carezze contro le mani-grilletto dei guerriglieri; le mani delle mamme, le mani che salutano, le mani della musica, le mani dell'arpa e quelle del ricamo contro le mani-protesi della lotta armata; le mani nelle mani contro il pugno chiuso dei compagni del Farc.


Comunque vada a finire, dobbiamo molto alla bellezza di Ingrid Betancourt. Intanto, se in tutto il mondo e tutti insieme siamo sobbalzati davanti alla sua sofferenza, noi che siamo bestie feroci, è perché vi abbiano riconosciuto la bellezza, quella che lascia senza fiato, la bellezza allo stato naturale, di perfezione rinascimentale, la bellezza che disarma gli efferati perché ne rivela la gratuità e dimostra che non esiste la violenza di cui parlava Marx, la violenza levatrice di storia.

Guardate come la bellezza di quelle palpebre semichiuse toglie dignità a qualunque progetto che sia fondato sulla sofferenza, fosse pure quella di un ricco banchiere e non quella di una donna, madre e moglie. Le palpebre di Ingrid Betancourt sono chiuse davanti alla violenza che ha visto e davanti a quella che ha subìto, mentre le nostre palpebre, al contrario, sono sbarrate per lo sbigottimento.

L'immagine che vediamo è una: per circa trenta secondi soltanto la camera si muove cambiando appena un poco la prospettiva. Ma nell'immobilità della Betancourt, che è bella come una poesia di Baudelaire, c'è tutta la velocità dei nostri nervi in fuga, c'è la nostra inquietudine, ci siamo noi che ci chiediamo come sia possibile che questi guerriglieri non riconoscano in questo video il loro autogol risolutivo, non capiscano che la bellezza di questa donna è come la cattura di Che Guevara in Bolivia, come la notizia della sua morte, come la foto del suo cadavere.


L'immagine della Betancourt, specie se non fosse liberata, è destinata a diventare un'immagine mito, come il cavallo di Troia per esempio, un giocattolino al quale viene consegnata l'espugnazione di una città e il declino di una grande civiltà, come il Che appunto, il rivoluzionario romantico che è finito sulle magliette dei giovani di sinistra, di destra e di centro, ma anche come Marilyn, come il Cristo armato, come James Dean, che è a sua volta l'immagine simbolo della ribellione e della libertà individuali. Ebbene, allo stesso modo, la Betancourt è la bellezza disarmata che sconfigge la guerriglia e il marxismo, i quali furono più forti dell'esercito degli Stati Uniti, ma sono più deboli di un donna. Tutto infatti possiamo comprendere: la libertà dei popoli, la rivoluzione, il sol dell'avvenire, la guerriglia; ma non la gratuità della sofferenza inflitta a una donna.

Da tempo ci siamo convinti che in Italia il fascismo aveva già perso la sua partita con la storia quando decise di infilare l'intelligenza in galera, cioè quando mandò Gramsci in prigione. E difatti, in quella prigione, Gramsci divenne ancora più intelligente e, morendo di prigione, seppellì il fascismo. Allo stesso modo qui il tormento ha reso la Betancourt bella e invincibile, ed è della sua immagine che ci ricorderemo ogni volta che ci parleranno di guerriglia marxista.


Di sicuro esistono altre forme di bellezza. Non è vero che la sola bellezza è quella maledetta, ma certo nella bellezza che è anche sofferenza c'è un surplus di mistero che non si esprime necessariamente nella magrezza e nelle cicatrici. A volte anche in un corpo fastoso può rivelarsi il maledettismo: basta uno sguardo, una mano, una tunica, un viso, o i lunghissimi capelli raccolti in una coda che pende sul davanti. Qui la bellezza maledetta traspare da ogni dettaglio, la Betancourt sembra la donna dell'antico rito indiano Sati, la donna che si lascia bruciare viva insieme al cadavere del marito, la donna fedele non ad un uomo, ma a se stessa, alla propria tenacia, alla propria forza, alla propria coerenza.


Nel lento crescere dei capelli della Betancourt in cinque anni di prigionia ci sono più forza, più tenacia e più coerenza che in tutta la teoria e in tutta la pratica della rivoluzione armata. Quei capelli lunghi sono il dolore della donna, sono un velo di lacrime, sono salici piangenti. Siamo certi che se fosse liberata, subito la Betancourt libererebbe anche i capelli che, così lunghi e al vento, tornerebbero

Degrado morale, indignazione profetica e cattolicesimo italiano

Intervento / don Giorgio Morlin*

"Rivoltatela come vi pare, prima viene lo stomaco, poi viene la morale!". Questa cita­zione di Brecht, che intende rappresentare cinicamente il modello oggi vincente di società, m'introduce ad alcune riflessioni personali, in riferimento anche ai compiti di magistero etico che la Chiesa è chiamata a svolgere in una fase storica in cui la società italiana, da un punto di vista culturale oltre che politico, sembra aver perso alcuni valori di fondo che costituirono essenziali punti di riferimento negli anni della nascita della democrazia in Italia, subito dopo l'esperienza tragica del fascismo e della guerra.

Durante questa estate, un libro di grande successo, "La Casta", ha registrato 26 edizioni in pochi mesi con più di un milione di copie vendute. In questo bestseller si compie un'analisi spietata e documentata sul ceto politico italiano, di destra e di sinistra sia a livello nazionale che periferico. Sono pagine amare che lasciano un senso di sgomento e di sconfitta rispetto ad un'oligarchia diventata arrogante e insaziabile, proprio come una "casta" privilegiata, appunto. "Che futuro può avere un Paese così?" sì chiedono indignati gli autori dell'inchiesta. Indignati come do­vrebbero indignarsi i cittadini italiani nei confronti di molti "servitori della polis" che, a circa 15.000 euro al mese, si sono appropriati di una funzione pubblica, peraltro necessaria, trasformandola però in una condizione di effettivo privilegio per una élite esclusiva.

Al di là di una facile demagogia su un tema tanto cruciale da rischiare di portarci a pericolose forme di antipolitica, vorrei proporre una mia riflessione sulla diffusa si­tuazione sociale ed etica che affligge il nostro Paese, a partire soprattutto dai compiti della Chiesa nei confronti di una situazione nazionale dove, da un certo numero di anni a questa parte, sembra essersi introdotto un "virus" che ha contagiato, in alto e in basso, una parte consistente di società italiana. Dalla cosiddetta "Calciopoli" (un sistema fraudolento messo in piedi da un certo Luciano Moggi e dalla sua banda a danno del calcio italiano!) alla cosiddetta "Vallettopoli"(il mondo effìmero dello spettacolo e della TV inquinato dalla cocaina e dalla prostituzione!), dai "furbetti del quartierino" alla scalata di grandi istituti bancari, in deleteria sinergia tra grandi immobiliaristi e alcuni politici, anche purtroppo di sinistra! A maggio 2007 è uscito un altro libro del giornalista Oliviero Beha dal significativo titolo "Italiopoli", quasi a indicare un paese, l'Italia, che sembra andare sempre più alla deriva. È un viaggio della mente e del cuore per denunciare una società italiana malata e per richiamare la necessità d'indispensabili "anticorpi per una nuova resistenza" in una stagione di decadenza etica - culturale da basso impero. Nel libro si parla di una marea montante che dilaga ovunque e che ha la sua spinta propulsiva in un modello culturale dove il profitto sfrenato diventa l'unica direzione di marcia per tutti, dai capi ai sudditi. E una melma vischiosa che rende invivibile questo Paese e dentro la quale stiamo len­tamente sprofondando. Ciò avviene mentre metà degli italiani faticano dalla mattina alla sera per pagare fino all'ultimo euro quelle tasse che l'altra metà rifiuta di pagare. È uno scivolamento verso l'illegalità di massa di fronte alla quale alcuni plaudono e altri s'infuriano. E la Chiesa, in merito a questo sconquasso etico collettivo che ha superato le soglie dell'emergenza, rimane inspiegabilmente muta, assorta in un religioso e prolungato silenzio inframmezzato da interventi sulla crisi della famiglia o sulla scuola privata o sulla messa in latino. I nuovi movimenti di massa apparsi sullo scenario nazionale dell'ultimo quindicennio, come il leghismo e il berlusconismo, sono stati i contenitori politici dove ha trovato feconda incubazione un processo culturale di esasperato neoliberismo individualista, veicolato e metabolizzato non solo dentro le istituzioni pubbliche ma anche, grazie all'invadenza omologante di una TV a servizio del padrone di turno, dentro le teste degli italiani. Tale modello, oggi imperante e vincente su tutti i fronti, sembra essersi trasformato purtroppo in una specie di nuovo identikit antropologico nazionale, ben consolidato dall'assuefazione e dall'indifferenza, dall'appiattimento morale e dall'omologazione culturale, da una religiosità di pura cornice e da una Chiesa italiana più politica che profetica. Rileggendo l'Antico Testamento si nota che la profezia biblica è nata molto spes­so impastandosi con la quotidianità dell'esistenza e con i problemi della "polis", nell'impegno ad offrire speranze e cammini nuovi per il popolo ebraico angariato dai vari poteri. Nei profeti si possono cogliere alcune prevalenti caratteristiche: la passione per l'uomo, la forza dell'indignazione, la difesa a oltranza dell'orfano, della vedova e dello straniero, l'amore per la giustizia e per la pace, la denuncia spietata dell'ipocrisia religiosa e della corruzione politica.

Sono molteplici le invettive con l'intento di smascherare comportamenti individuali e collettivi che offendono Dio e l'uomo. Sono richiami morali molto forti contro i legislatori che fanno leggi inique (Isaia 10, 1) e i commercianti che imbrogliano (Amos 8, 4-6), contro gli arricchiti a danno dei poveri (Geremia 22, 13-17) e coloro che frodano il salario al lavoratore (Malachia 3, 5), contro i prepotenti (Giobbe 24, 2-12) e chi non pratica la giustizia (Isaia 1, 16-20), contro chi opprime il povero (Proverbi 22, e chi maltratta lo straniero (Esodo 22, 20), contro chi fa usura (Levitieo 25, 35-37) e chi dice il falso (Levitieo 19, 12), contro i ricchi che comprano i giudici (Proverbi 17, e chi agisce con avarizia (Siracide 8, 2), ecc.

È una sequela travolgente di "-guai a voi!" che risuona impetuosa nelle pagine del libro sacro dove l'annuncio-denuncia viene storicizzato dentro un preciso contesto di situazioni culturali e geografiche, politiche e sociali, economiche e religiose. Non ci sono scontati e innocui richiami moralistici dispensati da pulpiti evanescenti ma precise accuse dove sono chiamati per nome i misfatti che deturpano l'immagine di Dio impressa sul volto dell'uomo.

Nella bibbia, infatti, l'esperienza religiosa è sempre stata vissuta all'interno di un binomio che è vitale per il credente: cielo e terra, Dio e uomo, fede e storia. E da uno sguardo di "com-passione" sulle ferite dell'uomo, quindi, che nasce l'indigna­zione profetica. Questa non si esprime affatto con un comportamento aggressivo e violento verso una persona in particolare ma piuttosto manifesta la sofferenza intima, viscerale e gridata per lo scempio arrecato al povero e all'orfano, alla "polis" defraudata e al bene comune calpestato. L'indignazione è un sentimento in cui "le viscere" - per usare una ricorrente metafora biblica - si contorcono nello sdegno e urlano con forza: "-Basta!". Basta al degrado civile e al sopruso del forte sul debo­le, basta al potente che si fa leggi di comodo, basta alla depenalizzazione sul falso in bilancio che mina in radice il comune senso della legalità oltre che del pudore, basta ai cosiddetti "atei devoti"che si servono delle Chiese e basta alle Chiese che si servono degli "atei devoti".

Nel libro del profeta Isaia si sente ripetere il grido del passante che alza lo sguardo verso la sentinella sulle mura della città: "Sentinella, quando finisce la notte? Dim­mi, quanto manca all'alba?" (Isaia 21,11). A chi oggi noi possiamo rivolgere questa domanda? Chi autorevolmente e profeticamente è in grado di darci una risposta di speranza? Come vorremmo fosse la Chiesa quella sentinella che, in nome di Dio e dell'uomo e vigilando attentamente dentro la storia, potesse offrirci spiragli di coraggio e di luce!

Come vorremmo fosse l'istituzione ecclesiale, definita mater et magistra da Giovanni XXIII, a sostenere con una mano il cammino faticoso degli uomini {mater) e, con l'altra mano, additare profeticamente il traguardo ideale {magistra). Maternità e magisterialità, quindi, come duplice missione orientata sempre a favore dell'uomo. Però, la Chiesa italiana, con i suoi complessivi 991 milioni di uro che riceverà dallo Stato nel corso del 2007 in base al gettito derivante dall'8 per mille dell'irpef, ha credibilità sufficiente per fungere da "sentinella" che vigila e che indica l'alba dopo il buio della notte? E in grado di proporsi non tanto come forza sociale proiettata ad ottenere la massima rilevanza pubblica ma piuttosto come sale e lievito dentro la storia? E in grado di affermare con forza il motto di don Milani "I care!", cioè "m'interessa e mi sta a cuore la sorte del Paese!"?... Per essere precisi, la Chiesa ita­liana ha già espresso nel recente passato un'attenzione preoccupata per le sorti della società italiana in un magistrale documento in cui si può leggere che "Fino a quando non prenderemo atto del dramma di chi ancora chiede il riconoscimento effettivo della propria persona e della propria famiglia, non metteremo le premesse necessarie ad un nuovo cambiamento sociale". Allora, nel 1981, questo documento fu accolto con grande speranza.

Oggi la situazione culturale ed ecclesiale è radicalmente cambiata. Si registra un cattolicesimo italiano mediaticamente e politicamente imponente ma profeticamente fragilissimo. E un cattolicesimo, ad esempio, che, il 12 maggio 2007, riesce a radu­nare un milione d'italiani per il "Family day" a Roma ad affermare con forza: "No ai DICO!"ma che non riesce a mobilitare nemmeno qualche migliaio di cittadini credenti, nelle piazze di Palermo o di Napoli o di Milano o di Venezia, per procla­mare, con altrettanta forza, "No alla mafia!".

Un cattolicesimo nazionale che è richiamato dall'autorità ecclesiastica, giustamente ma anche ossessivamente, all'osservanza del VI° comandamento {non commettere adulterio: quindi, no alle coppie di fatto!) ma che, allo stesso tempo, in merito ai due comandamenti contigui nell'elenco del decalogo, brilla per il suo grande silen­zio: ad esempio sul V° {non uccidere": quindi, no alla guerra, no alla mafia, no alla camorra...) e sul VIP {non rubare: quindi, no all'evasione fiscale, no alla cultura dell'illegalità...). Si verificano situazioni, paradossali e ridicole allo stesso tempo, in cui, ad esempio, i quattro principali leaders politici del centrodestra (Berlusconi' Bossi, Casini, Fini) che si dichiarano pubblicamente cattolici molto ossequienti al papa e strenui difensori della sacralità del matrimonio monogamico, in realtà risul­tano tutti e quattro divorziati.

Una cultura cattolica come questa, chiaramente strumentale e schizofrenica, spegne la speranza e la profezia. È una schizofrenia, comunque, che si registra in molti ambiti della vita civile e religiosa. Da un punto di vista strettamente religioso e popolare, il mondo cattolico, mentre riesce ogni anno a portare da ogni parte d'Italia circa 6 milioni di pellegrini alla tomba di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, non solo è incapace a mobilitarsi ma anche incapace ad esprimere un minimo di ribellione morale quando, ad esempio, i servitori della giustizia (come i giudici Costa, Chinnici, Livatino, Falcone, Borsellino, ecc..) sono ammazzati dalla mafia o dalla camorra o dall'ndrangheta. E uno strazio devastante che si abbatte con furia non solo sulla vita dei cittadini ma anche sulla vita della natura stessa attraverso gli incendi dolosi a ripetizione, mirati masochisticamente all'autodistruzione ecologica, economica e urbana delle meravigliose terre del sud.

Tutto questo, tra l'altro, accade con l'omertà colpevole di quelle popolazioni locali, che magari poi sono anche molto devote nel recitare il rosario davanti alle statue di Padre Pio disseminate a migliaia nelle piazze e contrade di città e paesi del meridione, e non solo. Una religiosità come questa è fuori dalla storia e dal vangelo. Anzi, sarà proprio alla storia e al vangelo che, non so come e quando, saremo tutti chiamati come Chiesa a renderne conto. A proposito del giudice Rosario Livatino, ammaz­zato a 38 anni di età nel 1990, lo stesso papa Giovanni Paolo II, durante il famoso anatema contro la mafia ad Agrigento del 1993, ebbe a dire che quel giudice "è stato un martire della giustizia e indirettamente della fede!". Però, al grido profetico e solitario del papa, fece seguito, come sempre, il silenzio imbarazzante di vescovi, preti e popolo, non solo nella Chiesa siciliana ma anche in quella italiana. L'indignazione profetica del cristiano è un atteggiamento che, supportato da una profonda fedeltà a Dio e all'uomo, nasce come forte reazione morale per la dignità offesa della singola persona o del popolo e per l'ipocrisia che copre indecorosamente una diffusa prassi d'immoralità collettiva che grida vendetta a Dio e all'uomo. Un atteggiamento come quello dell'indignazione profetica non s'improvvisa ma va alimentato e fatto crescere attorno ad alcuni fondamentali valori etici che riguardano non solo la vita morale individuale ma anche quella della società civile. Assieme alla famiglia e alla scuola, anche la Chiesa, con la sua capillare ramificazione territoriale delle parrocchie, deve sentirsi destinataria di questo essenziale compito educativo. Da qui, la necessità di un indispensabile magistero etico che miri alla crescita delle singole coscienze e delle comunità ecclesiali perchè siano in grado di farsi "prossimo" alla u polis" e ai suoi bisogni primari.

Naturalmente, tutto questo deve avvenire in un'ottica di laicità, senza alcuna pretesa di accaparramento confessionale ma solo dentro un autentico spirito di servizio alla società civile, in un rapporto disinteressato senza altri fini che non siano quelli, appunto, della dignità dell'uomo e del bene comune. È stato ancora don Lorenzo Milani a ripetere instancabilmente che "bisogna servire l'uomo e non servirsene". Nell'importante e già citato documento GEI del 1981 si legge che "// Paese non crescerà, se non insieme. Ha bisogno di ritrovare il senso autentico dello Stato, della cosa comune, del progetto per il futuro".

Tuttavia, i documenti della Chiesa, che certamente sono numerosissimi e anche importanti, oggi non sono più sufficienti per dare credibilità ad un'azione ecclesiale che voglia mettersi in dialogo con il mondo, al cui servizio la Chiesa stessa è stata posta dal Vaticano IL II teologo della liberazione, il belga brasiliano José Comblin, a tale proposito scrive che l'istituzione fondata da Cristo è chiamata oggi ad esprimere la sua testimonianza evangelizzatrice "non più tramite documenti e discorsi, tutti condannati all'irrilevanza, ma attraverso azioni profetiche di grande visibilità".

* Parroco a Mogliano Veneto (Treviso).

I conti della Chiesa ecco quanto ci costa

L'otto per mille, le scuole, gli ospedali, gli insegnanti di religione e i grandi eventi

Ogni anno, dallo Stato, arrivano alle strutture ecclesiastiche circa 4 miliardi di euro

di CURZIO MALTESE

"Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati". Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l'arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus, dall'arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate. Nel "ventennio Ruini", segretario dall'86 e presidente dal '91, la Cei si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all'interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.

Le ragioni dell'ascesa di Ruini sono legate all'intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un'altra chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990, quando entra a regime il prelievo diretto sull'Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all'anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l'ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.

Dall'otto per mille, la voce più nota, parte l'inchiesta di Repubblica sul costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all'anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L'equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all'anno".

Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali, sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai parlamentari europei all'ultimo consigliere di comunità montane, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio.

Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali.

Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all'anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell'otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell'ora di religione ("Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire", nell'opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c'è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all'ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell'ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un'inchiesta dell'Unione Europea per "aiuti di Stato". L'elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 ai 700 milioni il mancato incasso per l'Ici (stime "non di mercato" dell'associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l'elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l'Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi all'anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all'anno, più qualche decina di milioni.

La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della democrazia", magari con migliori risultati.

Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse non lo sanno. Il meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef, studiato a metà anni Ottanta da un fiscalista all'epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell'84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.

Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell'otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d'accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l'impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma "quanto" veri?

Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull'otto per mille. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all'estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all'autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all'interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l'altro paradosso: se al "voto" dell'otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.

Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell'otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell'Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L'altra faccia dell'otto per mille", Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell'otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?". "E infatti - conclude l'autore - i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere...".

A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa padrona", rifiutato in blocco dall'editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all'uso "ideologico" dell'otto per mille non è affatto nell'universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: "I vescovi non parlano più, aspettano l'input dai vertici... Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato". Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: "Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono".

La Chiesa di vent'anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall'egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall'universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l'antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l'impegno di don Italo Calabrò contro la 'ndrangheta.

Dopo vent'anni di "cura Ruini" la Chiesa all'apparenza scoppia di salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l'agenda dei media e influisce sull'intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent'anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione.

Il clero è vittima dell'illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d'inverarsi la terribile profezia lanciata trent'anni fa da un teologo progressista: "La Chiesa sta divenendo per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo". Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.

(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(28 settembre 2007)