venerdì 28 dicembre 2007

Essere prete quando si fa sera

di Giulia Cananzi

Una casetta di fianco alla chiesa di San Floriano (TV), mobilio essenziale, cimeli etnici, segni d'incontri e viaggi. Sul tavolo, sproporzionato per il piccolo soggiorno, cumuli di carte, opuscoli di un prossimo incontro, qualche libro. Nel cucinino adiacente, Marisa, capelli candidi e sorriso contagioso, sta preparando il bollito per un numero imprecisato di commensali. In fondo, potrebbe sempre arrivare qualcuno. Da quando don Olivo Bolzon, parroco di San Floriano per sette anni - gli ultimi da prete «attivo» - è andato in pensione, il suo porto di quiete è diventato un porto di mare. Da lui si può incontrare il prete algerino, l'attivista dei diritti umani pachistana, la coppia di fidanzati, il curdo spaesato in cerca di un nuovo futuro. Nonostante il «cuore matto» - ha avuto un infarto durante un viaggio in Russia assieme ai parrocchiani, uno dei tanti fatti per aprire testa e cuore «perché l'anima si nutre anche di conoscenza» - la mente è rimasta un vulcano. E via al progetto di accoglienza per gli immigrati, al gruppo famiglie giovani, ai libri scritti seguendo la sua grande passione: l'ecumenismo. E poi gli articoli, i viaggi, i dibattiti pubblici e soprattutto, lo scambio con la gente comune. Da un anno, insieme ad altri preti e religiosi in pensione, partecipa a una nuova iniziativa: «Ci incontriamo una volta al mese, parliamo di noi, di come viviamo la nostra condizione di preti senza ruolo, delle nostre relazioni con gli altri. Ognuno di noi ha una storia, un vissuto. Ci siamo chiesti che carisma particolare potevamo donare noi, che non contiamo più niente, alla società e alla Chiesa. La nostra memoria può ancora confortare e consigliare, essere sapienza, alimentare vita?». E don Olivo di vita ne ha molta nella sua bisaccia: ha fatto parte dell'Onarmo (Opera nazionale religiosa e morale per gli operai); «era il tempo in cui la nostra società da agricola diventava industriale: nel passaggio rischiavamo di perdere lo stretto contatto che la Chiesa aveva con i lavoratori del mondo contadino»; poi è migrato in Belgio per conto delle Acli come rappresentante dei cattolici nei rapporti con il Mercato Comune: «Sono arrivato dopo la tragedia di Marcinelle (avvenuta l'8 agosto del 1956: 262 minatori morti, 136 erano italiani). All'epoca c'era un patto tra i governi: gli emigranti italiani potevano scegliere solo di lavorare in miniera per i primi cinque anni. I minatori erano gente speciale. Facevano il lavoro più duro che io avessi mai visto, eppure erano un'aristocrazia nel senso morale del termine». Quattro anni dopo, il ritorno in Italia come membro del Comitato italiano per l'America Latina nel pieno del Concilio Vaticano Il e del tentativo di incarnarlo da parte dei vescovi profeti: Camara, Fragoso, Romero. Poi eccolo ricominciare: prete operaio a Spinea nel veneziano, grande quartiere dormitorio delle fabbriche di Porto Marghera, futura locomotiva del Nord Est. Infine a Roma, alla Società biblica, per la traduzione e la diffusione della Bibbia interconfessionale. Don Olivo è uno dei tanti frammenti di storia della Chiesa che si aggirano nelle nostre diocesi senza più un ruolo ufficiale; sono tra questi i testimoni del fascismo e della guerra, dell'industrializzazione e del Concilio, i custodi della fede all'inizio dell'epoca moderna sempre più tormentata e secolarizzata, i precursori della globalizzazione della fede, prima che dell'economia. Saranno sempre di più in una manciata di anni. Una recente ricerca compiuta dalla Fondazione Agnelli per conto della Cei, rivela che il 42,3 per cento dei preti ha più di 65 anni, il 12,8 più di 80; i quarantenni sono solo il 18,6 per cento, mentre l'età media delle ordinazioni - analogamente a quanto succede per il matrimonio nella società -è salita a 31 anni contro i 22-24 anni di qualche decennio fa. La Chiesa invecchia e, al pari della società, si trova ad affrontare le conseguenze che questo comporta. Un problema o una sfida?

La sfida dell'inutilità

Don Olivo non ha dubbi: è una sfida da cogliere. Per i singoli, per la Chiesa e per la società. «Sia il mondo civile che quello religioso ha la tendenza a non far più conto su di noi. Noi invece auspichiamo, sia per noi che per i nostri fratelli laici, una vita da soggetti che ancora possono dare, non da oggetti bisognosi di assistenza. Ha più senso ed è anche più economico». Ma che cosa succede a un parroco super indaffarato che all'improvviso si ritrova dal pulpito alla panchina davanti al sagrato? «È uno shock che può uccidere. Non solo non hai più un ruolo ma entri in una profonda solitudine. C'è chi non riesce più a riprendersi. Se però scendi i gradini della chiesa, ti fermi fuori dopo la funzione con i tuoi ex parrocchiani, riscopri un mondo». Ora che la vita non ha più impegni fissi né giorni di ferie comandati, ci si può fermare a riflettere e a vedere le contraddizioni. La parrocchia, al pari della società, si è nel tempo appiattita sull'efficienza. Tutto con puntualità: dal battesimo al funerale. Se lo aspettano i parrocchiani, te lo impone il ruolo. Tutto funziona ma l'anima soffre, la gente partecipa ma nello stesso tempo è lontana. «L'inutilità mi ha spogliato. Non ho più nulla da difendere, non ho più nulla di materiale da dare. Sono solo ciò che posso testimoniare. Ho alle spalle un passato ma ho davanti una libertà immensa, la libertà d'essere solo Parola. Chi mi viene a cercare non lo fa per ottenere qualcosa ma per condividere. E d'improvviso entri nel cuore della gente, come non ci sei mai entrato prima. Cammino insieme a loro come all'inizio della mia vita di prete. Ecco, noi anziani vorremmo che il nostro non contare fosse una risorsa per la Chiesa». Suona il telefono: Marisa in punta di piedi lascia i fornelli e va a rispondere. L'ennesi-mo impegno per lei e don Olivo. Quel minisoggiorno dal grande tavolo, ormai è chiaro, è una piccola comunità. L'anziana sta per tornare alle sue incombenze quando don Olivo la chiama. «Nell'inutilità ho scoperto anche il valore fondante dell'universo femminile e quanto la Chiesa sia incapace di valorizzarlo. Maschio e femmina li creò e non a caso. Non possiamo essere compiutamente uomini se non possediamo in noi anche le virtù femminili». Marisa sorride, sotto i suoi riccioli candidi. Passano insieme i pomeriggi accogliendo, discutendo animatamente, scrivendo al computer. Anche lei ha il suo passato a servizio degli altri: prima la difesa dei diritti dei lavoratori, poi tanti anni d'insegnamento nelle scuole sperimentali per i figli degli agricoltori. Anche lei in pensione, anche lei «inutile». Si sono seguiti negli anni a distanza ognuno con le sue lotte e con le sue fatiche, la vita li ha fatti rincontrare in questo soggiorno. Tra loro, è tangibile, c'è una comunione di fede, d'interessi, di valori. Un celibato liberato dal pregiudizio e dalla paura del confronto, una capacità di andare oltre che hanno solo quelli che si sentono davvero liberi. Suona il campanello: ci sono ospiti. Vuoi fermarti a mangiare?

Un abbraccio, una parola, le sedie che si spostano intorno al grande tavolo. Sì, l'inutilità è l'ultimo dono.

da Il Messaggero di S. Antonio dicembre 2007

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