domenica 18 aprile 2010

Io, gay e cattolico: più facile dirlo ai preti che al partito


il dibattito sullo scandalo in vaticano sul «corriere della sera»

Vendola: «Amo Pasolini, Testori e Fassbinder, ma rifiuto la loro visione del senso di colpa»
di ALDO CAZZULLO

 «Sono sempre stato cattolico e omosessuale, non l’ho mai nascosto. E dichiararsi non è pettegolezzo. E’ carne, fatica, sangue, dolore, emarginazione, offese, violenza. Sono sempre stato anche cattolico e comunista, come la mia famiglia. Ed è stato forse più facile dire la mia omosessualità ai preti che al partito». Nichi Vendola, eletto per due volte a sorpresa presidente di una grande Regione del Sud, si dichiarò nel 1978, quando aveva vent’anni e da sei era nella Federazione giovanile comunista, con un articolo su un giornale da lui fondato, «In/contro». Titolo: «Le farfalle non volano nel ghetto». «Era un verso che avevo trovato in una raccolta di poesie scritte nel ghetto di Varsavia. E ho avuto tutte le difficoltà che potevo avere, nel partito, al Sud, al paese», Terlizzi, periferia di Molfetta, terra di braccianti. «Mi ha sempre affascinato il pensiero religioso. Ero uno di quei comunisti per cui il libro più importante è la Bibbia. Ma ha contato molto per me anche il pessimismo di Sergio Quinzio, ho amato i libri del cardinal Martini, e sono stato discepolo del vescovo di Molfetta, il mio vescovo, Tonino Bello». 

 «Ho parlato della mia omosessualità con molti preti, con uomini e anche con donne di Chiesa — racconta Vendola —. Non mi sono mai sentito rifiutato. Sono state anzi interlocuzioni belle, profonde. La Chiesa è un universo ricchissimo e complicato, non riducibile a nessuna delle categorie politiche che usa la cronaca. Nella Chiesa ci sono molte sensibilità, molte cose; e qualcuna crea dolore e tristezza, quando evoca stereotipi pseudomorali che non hanno solo l’effetto di indicare identità ideologiche, ma anche di ferire la vita delle persone». E’ di Vendola la prefazione agli scritti di monsignor Bello, «Teologia degli oppressi». Comincia così: «Io ero sull’altra riva, quindi ero un rivale». «Tutta la teologia di Bello è una teologia della differenza— sostiene oggi il presidente della Puglia —. Come quando spiega il dogma della Trinità con la metafora della convivialità delle differenze: la presenza di tre differenze in un’unità ci insegna la bellezza della convivenza, che è qualcosa di più della tolleranza». Dice Vendola di non aver mai rinunciato alla fede, di credere più che alla rivoluzione alla conversione permanente, di confidare che Dio saprà capire anche quelli come lui, perché «Dio non è un tribunale islamico». Dice di non amare il coté «pirotecnico, esibizionista». Per questo in passato non apprezzò le confessioni di bisessualità rese da altri politici, «una dichiarazione che si faceva a 18 anni per fiutare un po’ l’aria. Anch’io sono stato bisex, e avevo fidanzate bellissime. Sono stato sul punto di sposarmi due volte. Ma non ho mai raccontato bugie, ho sempre vissuto quei rapporti da omosessuale». Storie lontane, «ho avuto molti amori, ho molto sofferto. Non mi sono mai arreso però, non ho mai permesso a nessuno di chiudere la mia storia dentro uno spigolo di rancore. Anche se mi hanno fatto di tutto». 

Tempo fa raccontò di quando «un dirigente nazionale di An venne a fare campagna elettorale nel ‘94 e tentò di stroncarmi accusandomi di andare con i ragazzini, peraltro pagati per dirlo. Andò via con le pive nel sacco, mentre io ricevevo migliaia di lettere di ragazzi che mi dicevano grazie per avergli dato coraggio». Anche questa è una storia lontana, «oggi ho disimparato l’odio». Spiega il presidente della Puglia di essere rammaricato per aver fatto soffrire la madre; a sua volta rammaricata per aver sofferto. Mamma Antonetta, casalinga e donna all’antica di Terlizzi, ha ricordato il giorno in cui una nipote le aprì gli occhi sul terzo dei suoi quattro figli: «Ci siamo pentiti di averne patito e oggi siamo orgogliosi, anche se di sesso parliamo per accenni e per sottintesi». Nichi le portava in casa le fidanzate: «Ne ricordo una, Aurelia. Era bellissima. Ed è vissuta in casa con noi e con mio figlio per più di un mese». Una volta, nel comitato centrale del Pci, l’autorevole compagna Marisa Rodano disse rivolgendosi indirettamente a lui: «Se uno di questi mettesse le mani su uno dei miei nipotini gli darei subito una sberla». Si dibatteva dei diritti degli omosessuali, dei carcerati, di tutte le minoranze e Vendola, che stava già nell’Arcigay, predicava la liberazione dei «soggetti smarriti» che è il titolo del suo primo libro. Prima aveva scritto la tesi di laurea sul Pasolini degli Anni 50, cacciato dal Pci per indegnità morale. Pasolini: anch’egli cattolico, comunista, omosessuale. «Ma lo si può amare senza essere come lui— dice Vendola —. Pasolini, come Testori e in fondo anche Fassbinder, ha avuto il grande merito di tirare la sua condizione di omosessuale fuori dall’oscurità; ma l’ha illuminata con le fiamme dell’inferno. L’omosessualità di Pasolini è molto segnata dal suo cattolicesimo. Lui si percepisce come il Cristo della diversità: una condizione vocata al martirio, a causa del senso di colpa. Il peccato e l’espiazione del peccato, per cui la sua letteratura diventa premonizione della sua stessa morte. La diversità come impossibilità dell’amore, un’identità che si afferma negandosi, come la Jeanne Moreau che canta "Ogni uomo uccide come ama”. Io amo Pasolini come amo Testori e Fassbinder, ma mi rifiuto di accettare questa visione. Ho sempre cercato di trascenderla, e questo mi ha aiutato a essere una persona serena, a uscire dal tunnel senza fine del senso di colpa». 

Tempo fa, Vendola fece discutere quando disse: «Non vorrei morire senza aver vissuto l’esperienza della paternità». «Non intendevo annunciare che sarei diventato padre, o che avrei fatto un’adozione che peraltro la legge mi vieta — spiega oggi —. Ma mi sento di ribad i r e i l mio d e s i d e r i o d i genitorialità. Sento molto la tutela della vita, la difesa del vivente. Sono contro la mercificazione e la privatizzazione della vita. Il tema fondativo del futuro è la costruzione della vita nelle forme di comunità. Il sangue non c’entra: per me la paternità non è un dato fisiologico, limitato al proprio seme. Allevare un figlio significa accudirlo, conoscerlo, ascoltarlo; amarlo. Dev’essere una cosa bellissima. Per questo, ogni volta che leggo di un neonato abbandonato, provo una stretta al cuore». 

 16 aprile 2010

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