di Raniero La Valle
Il discorso di Raniero La Valle per la festa dei suoi 80 anni
LECTIO DISCIPULARIS
A Antigone, Vasti, Agnese, Agata, Teresa, Tina Anselmi, Ruth First, Marianella, le madri di piazza di Maggio, le donne del 13 febbraio e a tutte le donne che resistono ai potenti
Prima di tutto devo spiegare la curiosa definizione data a questo mio inusuale discorso. Il termine “discipularis”, aggettivo di “discipulus”, è attestato in un codice medievale, nel Carme di un monaco dell’abbazia di San Salvatore telesino, e ricorre due volte nella Patristica latina, ma non si trova affatto nei dizionari. E quando manca la parola, vuol dire che manca anche la cosa. Invece il termine “magistralis” si trova sempre, segno che di maestri ce ne sono tanti, e c’è sempre qualcuno che fa una “lectio magistralis”. Ciò vuol dire che la nostra società, benché dicasi cristiana, ha del tutto dimenticato o rimosso la parola evangelica che dice: “non fatevi chiamare maestri, perché uno solo è il vostro maestro” (Matteo, 23, 10).
Stasera io vorrei dire invece la mia esperienza di discepolo; e benché io abbia avuto molti maestri, vorrei parlare di quella scuola e di quel maestro di cui soprattutto sono stato discepolo, cioè del Novecento, del “mio” Novecento, della storia che esso è stata, per me ma anche per tutti.
Il Novecento è stato un secolo grande e terribile, affascinante e tremendo, tempo di morti e di rinascite. È il secolo che ha prodotto i totalitarismi e il costituzionalismo, che ha fatto le più grandi guerre e ha dato fondamenti alla pace, che ha inventato la bomba atomica e la dottrina della nonviolenza, che ha perpetrato la shoà, ha compiuto genocidi e ha visto popoli insorgere e liberarsi.
Per fortuna non è stato un “secolo breve”, come certi storici hanno sostenuto e così io, che ne ho attraversato gran parte, ho avuto una vita più lunga.
Il fascismo
Per me, il mio Novecento è cominciato nella notte del fascismo; ma essendo un bambino non ne sono stato, all’inizio, troppo turbato. È vero che sono stato balilla, e perfino balilla moschettiere, ma non ho fatto a tempo a diventare avanguardista, prima che il fascismo cadesse.
Forse ho fatto anche qualche tema sul duce. Il Duce era un mito. Ed io ricordo il mio choc quando per la prima volta mi sono imbattuto in un atto di demitizzazione. Fu quando su un manifesto affisso per la strada, abbastanza in basso perché un bambino potesse arrivarci, vidi scritto in un angolo, piccolo piccolo, a matita: Abbasso il duce. Mi fece un’impressione straordinaria. Dunque si poteva anche essere contro il duce? Dunque nel segreto si poteva pensare male di lui? Dopo di allora, molti altri processi di demitizzazione sono entrati nella mia vita; ma quella fu la prima volta, e ancora me ne ricordo.
Il fascismo, nel quale avevo vissuto lietamente l’infanzia, cominciò a farmi soffrire quando ho smesso di essere un bambino. Ciò è accaduto all’età di otto anni, quando è morto mio padre, una firma importante del giornalismo, Renato La Valle, che però il regime da anni aveva messo a tacere. Ho smesso di essere un bambino anche perché subito dopo, nel 39, c’è stata la guerra, e la guerra non fa bene ai bambini. A Roma venne anche la fame; sicché quando toccava a me di andare a prendere il pane dal fornaio, che si chiamava Biagini, già per la strada mangiavo il panino che mi spettava, che era poi la razione di cento grammi di pane al giorno stabilita dal governo.
In ogni caso non si poteva affrontare la guerra da bambini, con una madre vedova e due sorelle, Fausta e Fidelia, anch’esse bambine. Vennero anche i bombardamenti a Roma; nella strada accanto alla nostra morì Virginio Gaida, che era direttore del “Giornale d’Italia”, e la fontana di fortuna sotto casa, attaccata alla presa per innaffiare, fu colpita mentre le donne erano in fila per prendere l’acqua. Un signore ebreo, che ci dava lezioni di francese a domicilio, fu ben presto in pericolo, sicché noi lo nascondemmo in casa nostra, anzi gli cedetti il mio letto, che aveva una coperta di damasco rosso fatta da una tenda. Seppi così che gli ebrei erano perseguitati. Una notte sparì, fuggito altrove; nel cestino della carta trovai che aveva buttato con noncuranza una cravatta ancora buona, perché era un barone. Poi abbiamo saputo che si era salvato.
Così cominciai a capire molte cose della guerra. Per esempio che cosa era una guerra mondiale. La guerra mondiale era che il Brasile, chissà perché, era nostro nemico. Ma il Brasile per noi era la fonte di sostentamento, perché mia madre lavorava col Brasile. Era infatti corrispondente di giornali brasiliani; e ciò lo si deve al fatto che alla morte di mio padre genialmente si era fatta giornalista; aveva passato una vita a battere a macchina gli articoli di suo marito, che scriveva solo a mano, e grazie a quella macchina aveva acquisito un sapere che le venne buono al momento del bisogno, permettendole di ereditare il posto di lui e di continuare il suo lavoro: ed ecco che ora la guerra separava lei dal suo lavoro, e noi dal suo stipendio.
Così lei, Mercedes, dovette inventarsi altri lavori; non poteva più scrivere articoli, però poteva fare la dattilografa; e così ancora una volta la macchina da scrivere la salvò.
Degli avvocati, che patrocinavano presso il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, le diedero da copiare dei processi; e lei ogni mattina andava al palazzo di giustizia a scrivere, e ci andavo anch’io, perché anch’io nel frattempo avevo imparato a scrivere a macchina, e perciò copiavo le carte dei processi anch’io; per fortuna allora non c’erano impedimenti al lavoro minorile.
Fu in questo modo singolare che io, senza affatto capire di che si trattasse, ho incrociato il dramma dell’antifascismo, e forse ho scritto a macchina qualche difesa di antifascisti giudicati dal Tribunale Speciale, e qualcuno magari condannato a morte. Ed è forse da questo inconscio in cui è rimasto in me sepolto il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato che oggi nasce la mia indignazione quando vedo accusare e diffamare i tribunali e i giudici della Repubblica democratica.
Il fascismo andò a finire nell’occupazione tedesca. E io ricordo i tedeschi che facevano le retate; capitò anche a me, quando a Porta Pia ci fecero scendere da un autobus, che allora non si chiamava 60, ma NT, che voleva dire Nomentano-Trastevere, e presero gli uomini; io avevo tredici anni, e perciò non corsi nessun pericolo, Nondimeno la domenica, quando andavo col mio compagno Giorgio Marino alle Messa e alla dottrina dal Cardinale Massimi, nella chiesa di San Claudio a piazza San Silvestro, il cardinale ci prendeva in macchina con sé e ci portava fino a casa sua per non farci correre rischi.
Anche il cardinale Massimi, che apparteneva a una famiglia di principi romani, era un demitizzatore. Girava sempre in tonaca nera, senza porpora, come un prete qualunque; e ricordo il mio stupore una volta che in San Pietro, nella cerimonia del concistoro, lo vidi sfilare, come usava allora, con uno strascico di tredici metri.
Faceva gesti semplici e omelie antifasciste. La domenica, prima di lasciarmi, spariva nell’androne della villa che abitava ai Parioli, e tornava, con la sua andatura caracollante, portandomi un cartoccio di farina e un sacchetto di zucchero, perché ero orfano; e siccome era uno che non cambiava abitudini – al Concilio certamente sarebbe stato tra i conservatori – continuò per molti anni ogni domenica a regalarmi sacchetti di zucchero e un chilo di farina, anche quando la guerra era finita e noi non ne avevamo più bisogno.
La Costituzione
Fu Vittorio Bachelet, che era un po’ più grande di me, che dalla Congregazione del cardinale Massimi mi portò alla FUCI, la Federazione degli universitari cattolici. Bachelet voleva lasciare la carica che aveva lì, di segretario del Consiglio Superiore, per cominciare la sua strada professionale che doveva portarlo poi fino al palazzo dei Marescialli e al sacrificio della vita. Lasciando la FUCI, volle lasciare la sua carica a me che non ero nemmeno fucino; sicché entrai alla FUCI dal vertice, al centro, invece che dalla base. Lì mi imbattei in un altro processo di demitizzazione. Fu quando, parlando con Ivo Murgia, che della FUCI era stato un prestigioso presidente, gli sentii fare una critica al papa, che chiamò “l’uomo vestito di bianco”. Ne fui molto impressionato. Dunque si poteva parlare così di Pio XII? Dunque anche lui era un uomo come gli altri, tanto che a distinguerlo potesse essere il suo abito bianco?
La FUCI rappresentò per me, come per molti altri giovani, la vera figura della Chiesa. Un po’ libera e un po’ clericale, molto seria e molto allegra, studiava e cantava, era intellettuale e sentimentale. C’era molto Maritain, che a me non piaceva per quella storia di dividere i piani tra lo spirituale e il temporale, tra l’operare come cristiani e l’operare come cittadini. Ma soprattutto era una grande comunità di amici: se la Chiesa era quella, era una meraviglia. Era anche il luogo dove ci si innamorava e ci si sposava, come ho fatto anch’io; e i matrimoni duravano “fino a che morte non ci separi”, cosa che a me accadde dopo quarant’anni.
La FUCI fu anche l’iniziazione alla politica, attraverso l’impegno nella democrazia universitaria. Io non sapevo nulla di politica, in FUCI non se ne parlava. A noi, gruppo dirigente di allora (presidente era Romolo Pietrobelli), non sarebbe mai venuto in mente di promuovere una campagna referendaria per cambiare legge elettorale e sistema politico, per spiantare i partiti e fare un’Italia bipolare maggioritaria e manichea, come poi si è fatto. Vero è che anche allora la politica si faceva, ma la faceva don Costa, che era un grande assistente ecclesiastico dell’associazione; ma dal punto di vista ecclesiale non era molto meglio che a farla fosse solamente lui. Egli parlava con i capi democristiani; una volta andò in via don Orione da don Sturzo a nome del papa, a dirgli che non doveva più scrivere, perché i suoi articoli sul “Giornale d’Italia” erano troppo antidemocristiani, e se la prendeva troppo con le partecipazioni statali e con l’ENI di Enrico Mattei. L’obbedienza che chiedeva a Sturzo, e proprio a lui, era il silenzio.
Io allora non sapevo che in quegli anni, tra la fine della guerra e il mio ingresso all’università, c’era stato un passaggio d’epoca. Certo, conoscevo i fatti, ma non ancora la loro portata.
In effetti in quegli anni, con l’Assemblea di San Francisco, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, le Costituzioni, il Novecento aveva cambiato il suo volto, aveva segnato una svolta nella storia e nel pensiero dell’Occidente, e aveva cambiato il nostro destino.
Il Novecento, e con esso l’Italia, avevano avuto il loro momento magico, avevano operato una straordinaria conversione culturale, politica e morale. Gli orrori della guerra, gli esiti perversi in cui erano venute a concludersi le dottrine politiche e antropologiche della modernità, avevano fatto cadere tutte le certezze, avevano posto l’esigenza potente, incoercibile, di pensare tutto di nuovo, l’uomo, lo Stato, la guerra, la pace, il diritto, l’ordine delle nazioni, ben al di là dell’antifascismo.
Il “mai più” pronunciato sotto lo scrosciare delle bombe, nei campi di sterminio, nelle carceri della tortura, dinanzi ai venti milioni di morti solo nell’Unione Sovietica, dinanzi allo stupro dei popoli fatto da colonie ed imperi, doveva trovare la sua traduzione in culture ed ordinamenti nuovi.
Fu così che nella storia del Novecento irruppe la novità della grande Costituente mondiale da cui nacque la Carta dell’ONU del 45, irruppe la novità del costituzionalismo come teoria dello Stato, e in Italia la novità della Costituzione e della Repubblica.
Il rovesciamento, almeno in via di principio, rispetto a tutta la storia passata, non poteva essere più radicale. E ciò almeno sotto tre profili.
1) Se prima il pensiero della disuguaglianza aveva fondato il dominio, ecco che ora veniva proclamata l’eguaglianza. In tutta la storia, fino a Hegel, a Spencer, a Nietzsche, a Croce e perfino nel dizionario francese Larousse e fino a Hitler, era stata teorizzata la disuguaglianza per natura degli esseri umani, la differenza tra popoli della natura e popoli dello spirito, tra spagnoli ed indios, tra razze bianche e nere, tra forti e deboli, tra maschi e femmine, tra uomini e no. Ed ecco che nel 45 eguaglianza e unità di tutta la famiglia umana vengono proclamate come principi generali e universali e come tali entrano nel diritto.
2) Se prima la guerra era stata proclamata dai filosofi madre e principio di tutte le cose, era stata la sposa indissolubile dello Stato sovrano, aveva giudicato i popoli con la forza e non con la giustizia, e fino a Norimberga era stata giudicata legittima anche nelle forme dell’aggressione e dell’invasione, ecco che ora la guerra veniva ripudiata come una spregevole concubina, veniva esclusa dal diritto e proibita nella comunità internazionale perfino nelle sue premesse, con il divieto non solo del ricorso alla forza, ma anche della minaccia dell’uso della forza.
3) Se prima l’idea di sovranità, come di un potere che non riconosce sopra di sé nessun altro potere, aveva fondato gli assolutismi e attribuito agli Stati il diritto di guerra, ecco che ora essa veniva ridimensionata, resa relativa. La sovranità esterna degli Stati era rovesciata nell’interdipendenza, sottoposta al diritto internazionale cogente e addirittura fatta oggetto di rinuncia, come nella Costituzione italiana, al fine di costruire un ordinamento di giustizia e di pace tra le Nazioni; e la sovranità interna veniva strettamente condizionata al costituzionalismo, e ciò a valere sia per i cittadini che per gli stranieri, sicché la cittadinanza, come dice Ferrajoli, è l’ultima discriminazione che dovrebbe cadere.
Certo, questi principi erano ben lungi dall’attuarsi. Però stabilirono un traguardo. Alla Costituente i partiti di massa e i professorini ce la misero tutta per fare della Repubblica il soggetto a cui fossero intestati questi ideali, e ci riuscirono; e i dossettiani ce la misero tutta per fare della Democrazia Cristiana lo strumento per la loro attuazione, finché, non riuscendoci, Dossetti si ritirò dalla scena.
La comunicazione politica era però ancora ristretta, la televisione non c’era, ed io non sapevo nulla di Dossetti. Una volta sentii Franco Grassini, che sarà poi un ottimo capo della GEPI, che diceva di essere “un dossettiano spinto”; solo dopo ho capito che cosa, allora, questo volesse dire.
La politica fu invece per noi la partecipazione agli organismi rappresentativi dell’Università: fu l’Interfacoltà, l’Unuri; i cattolici stavano nell’Intesa universitaria, Pannella era coi goliardi. C’erano pure i comunisti, freschi di scomunica; ma non mi sembrava che mangiassero i bambini. C’era anche Luciana Castellina, che era bellissima e diceva cose ragionevoli e giuste, e naturalmente me ne innamorai, anche se solo nel pensiero.
Del resto io non sono mai riuscito a vedere nessuno come nemico. Una volta, quando più infuriava la lotta contro i comunisti, e Gedda voleva fare una “base missionaria” in ogni condominio per combatterli meglio, io scrissi su “Ricerca”, che era il giornale della FUCI, un articolo dicendo che nel Vangelo si leggeva che bisogna amare i nemici e perciò, benché nemici, bisognava amare anche i comunisti. Successe un putiferio; i Comitati Civici accusarono la FUCI di rompere il fronte, ma in quella occasione don Costa mi difese.
La FUCI mise in movimento un processo di maturazione della fede, che però non si sarebbe mai compiuto se non fosse giunto il Concilio Vaticano II. Io la fede l’accettavo così come veniva proposta, però c’era un disagio che non sapevo decifrare, che mi portava a preferire l’approccio monastico dei camaldolesi; amavo padre Benedetto Calati e una volta restai folgorato quando, ascoltando un’omelia del cardinale Lercaro durante un congresso fucino a Bologna, mi sembrò di sentire per la prima volta parlare di Dio. Lercaro non era il mio vescovo, ma io da allora lo presi come tale, finché quando poi andai a Bologna a lavorare, mio vescovo diventò davvero.
Il Concilio
La figura di Dio che la Chiesa allora proponeva, e la dottrina di fede nella quale lo includeva, erano molto diverse da quelle che sarebbero state dopo il Concilio e quali sono ora. E bisogna ricordarlo, altrimenti non si capisce uno dei cambiamenti più profondi che sono avvenuti nel Novecento.
Nella presentazione che allora se ne faceva, Dio era un nume offeso che doveva essere placato dai nostri sacrifici, così come aveva voluto essere placato dal sacrificio del Figlio che a questo scopo avrebbe mandato a morire sulla croce; la nostra cattiveria era data per scontata e attendeva solo di essere perdonata; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù, perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il mondo era una valle di lacrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del mondo, e cercare solo quelle celesti. Le nostre afflizioni erano del tutto meritate, come dicevano le preghiere della Messa: “Dio che vedi come per le nostre perversità siamo afflitti”; “Noi che giustamente siamo afflitti a causa dei nostri peccati”; “Noi che siamo afflitti a causa del nostro operare”; “Noi incessantemente siamo afflitti a causa dei nostri eccessi”, e così via, di colpa in colpa. Così si pregava nell’Ordinario latino della Messa prima della riforma liturgica del Concilio; e siccome eravamo stati educati a prendere in mano il messale e sapevamo il latino, capivamo quelle parole e ora possiamo capire il salto che c’è stato, e possiamo anche capire il furore dei tradizionalisti che vogliono tornare a quella messa, e non perché è in latino.
All’origine di quella comprensione della fede c’era un’antropologia pessimistica, che era diventata cultura comune e che ancora oggi possiamo rintracciare alla base di molte istituzioni dell’Occidente, a cominciare dallo Stato. Esso fu concepito infatti come antidoto alla congenita cattiveria umana che di per sé porterebbe alla violenza generalizzata, alla lotta di tutti contro tutti, sicché anche la politica è stata teorizzata come uno scontro tra Amico e Nemico. Il nostro acerrimo sistema bipolare è ancora il figlio di questa dottrina.
Secondo questa antropologia, l’uomo si era infortunato appena creato; a causa del peccato era rimasto sfigurato, la sua natura decaduta, ferita; il paradiso terrestre c’era stato davvero, ma ne eravamo stati cacciati. La libertà dei moderni era considerata un delirio. L’eguaglianza tra uomo e donna un’eresia e anzi, secondo Pio XII, una tentazione diabolica, la lusinga di “una voce serpentina”. Il desiderio sessuale, i parti con dolore, il lavoro col sudore della fronte erano pena del peccato; l’amore sponsale non inteso alla procreazione era, come si leggerà in un documento preparatorio del Concilio, “un fetido onanismo coniugale”.
Rievocando quei tempi, nel 1979 a quindici anni dalla chiusura del Concilio, il teologo Karl Rahner dirà che la Chiesa era tributaria di un cattivo agostinismo per il quale la storia del mondo era ed è “la storia di una massa dannata nella quale solo a pochi è dato salvarsi per una grazia di elezione raramente concessa”; quei pochi stavano nella Chiesa cattolica, fuori della quale non c’era salvezza; quanto agli altri cristiani erano considerati come “una massa di eretici da indurre con le buone o con le cattive alla conversione all’unica vera Chiesa”.
È su questo scenario che irrompe il Concilio, che papa Giovanni inaugura postulando l’aggiornamento della Chiesa, il licenziamento dei profeti di sventura, il balzo innanzi nella penetrazione dottrinale e nella formazione delle coscienze secondo il linguaggio e le forme dell’indagine proprie del pensiero moderno. E benché oggi molti si ostinino a dire che il Concilio non ha cambiato niente, o che deve essere interpretato secondo un’ermeneutica dell’invarianza, la Chiesa e il suo annuncio di fede ne sono usciti trasformati; come dice Rahner, lo stesso annuncio di Cristo è diventato un annuncio nuovo; “sia nell’annunciatore che nell’annuncio è avvenuto qualcosa di nuovo, di irreversibile, di permanente.”
Queste cose non le abbiamo scoperte subito, ma nel tempo, e per molti cristiani sono ancora da scoprire.
Ma certamente il Dio testimoniato dal Concilio non è un Dio vendicatore che debba essere risarcito e placato con l’olocausto del Figlio; l’età dei sacrifici è conclusa, e con essa qualunque legittimazione religiosa delle pratiche vittimarie, delle vendette del sangue, delle rappresaglie, della violenza e della guerra. La parola “placatio”, da “placare”, non c’è mai nei testi del Concilio né nella liturgia dopo il Concilio. Il Signore è stato crocefisso non a causa di Dio e per far piacere a lui, ma a causa degli uomini, a cui egli ha pagato fino alla fine il prezzo del suo amore per loro.
Il Dio del Concilio non è il Dio bifronte, “tremendum et fascinans”, di cui parlava Rudolf Otto all’inizio del Novecento, ma è un Dio solo fascinans, solamente buono. È un Dio che non ha cacciato nessuno dal giardino dell’Eden dopo il peccato; nella narrazione della storia della salvezza fatta dal Concilio questa cacciata non c’è; la buona notizia è che questa notizia non c’è, e anzi, dice il Concilio, gli uomini, caduti in Adamo, Dio non li abbandonò, non dereliquit eos, ma a causa di Cristo sempre prestò loro gli aiuti necessari per salvarsi e senza posa, sine intermissione, si prese cura del genere umano.
Di conseguenza l’essere umano non è un fuscello sbattuto nel tempo, ma ce la può fare a prendere in mano la storia, ad aggiustarla (ius, il diritto, viene da iustari, che vuol dire aggiustare). Il Figlio di Dio si è unito in qualche modo ad ogni uomo, dice il Concilio, perciò la salvezza è per tutti, e tutti possono cooperare a realizzarla, perché, dice con la Bibbia il Vaticano II, “Dio ha messo l’uomo in mano al suo consiglio”, e nella misura in cui vengano “suscitati uomini più saggi” è possibile far fronte a una situazione in cui, come dice la Costituzione pastorale, “è in pericolo il futuro del mondo”. E quanto alla libertà, essa è la “dignitas humana”, la dignità stessa dell’uomo, e in nessun modo la si può coartare, nemmeno col pretesto di non dare libertà all’errore. La riconciliazione della Chiesa col mondo, celebrata dal Concilio, è stata in realtà una riconciliazione con l’uomo, con gli uomini e le donne quali noi siamo; e da questo non si può tornare indietro.
Il giornale
Quando arrivò il Concilio, io ero da poco tempo direttore dell’ “Avvenire d’Italia”, un giornale cattolico un po’ abbandonato dopo la lunga direzione di Raimondo Manzini, passato all’“Osservatore Romano”.
Prima, per alcuni mesi, ero stato direttore del “Popolo”, dopo il mitico Bernabei, sotto la guida di Aldo Moro. Ma non volevo fare la carriera nei giornali di partito, e non ero iscritto alla DC, forse ero indipendente già allora, e perciò accettai l’offerta, liberatoria, che mi venne dal giornale di Bologna. Credo che ne avessero parlato con Giovanni XXIII perché Angelo Salizzoni, l’esponente moroteo che faceva parte del Consiglio d’Amministrazione del giornale, mi comunicò la nomina dicendomi: “per lei si apre anche il portone di bronzo”. Bernabei, che intanto si stava inventando la televisione, mi diede il suo viatico con un consiglio: “Ricordati – mi disse – che una fotografia in prima pagina gli piace perfino a La Pira”. Io avevo trent’anni.
All’ “Avvenire d’Italia” ho fatto l’esperienza di che cosa volesse dire davvero la libertà di stampa. Con giornalisti grandi come Piero Pratesi, Albino Longhi, Giancarlo Zizola, Vittorio Citterich, Umberto Andalini, Italo Moscati, Cavallaro, Pecci, Nanetti e molti altri, e con collaboratori illustri, di cui Bologna non era avara, da Andreatta ad Alberigo a Ulianich alla Codrignani ai due Prodi, facemmo proprio il giornale che volevamo fare. I vescovi ci lasciavano liberi, e il cardinale Lercaro garantiva per tutti. L’unico fastidio che ogni tanto avevamo era quando un vescovo voleva che non mettessimo la pubblicità dei film che il Centro Cattolico cinematografico di allora giudicava esclusi ai minori.
Nel 1964 Paolo VI, che era antifascista, chiuse il “Quotidiano” di Gedda, che era il giornale cattolico di Roma, e assegnò all’ “Avvenire d’Italia” la sua area di diffusione a Roma e nel Sud, sicché il giornale divenne il quotidiano nazionale dei cattolici; nello stesso tempo, Paolo VI pagò l’abbonamento al giornale per tutti i Padri conciliari, durante le sessioni del Concilio. Per il giornale fu un’esperienza esaltante: i vescovi cambiavano la Chiesa, e noi raccontavamo ai fedeli il Concilio che cambiava la Chiesa; nello stesso tempo raccontavamo ai vescovi il loro stesso Concilio e il modo in cui esso era percepito nella base ecclesiale, sicché si creò un circuito virtuoso tra padri conciliari, giornale e opinione pubblica nella Chiesa.
Quando il Concilio finì, e Roma fu di nuovo sola, il vento cambiò. Anche la proprietà del giornale era cambiata, e non era più in maggioranza dei vescovi locali e dei laici, ma della Santa Sede. E perciò si pose un problema nuovo: che ne è della libertà di stampa quando l’editore è il papa? Con Paolo VI le cose erano andate sempre bene, tranne in due occasioni. La prima fu nel 1964 quando nelle elezioni per il presidente della Repubblica la DC proponeva Leone, e spuntò la candidatura Fanfani, cosa che oltreTevere fu considerata una disobbedienza. I giornali cattolici avrebbero dovuto sostenere questa tesi. Anzi avremmo dovuto dire che Fanfani era un pubblico peccatore, perché mentre la Chiesa chiedeva l’unità degli elettori cattolici, lui rompeva l’unità degli eletti. Noi non sostenemmo questa idea, e continuammo a dire che, Costituzione alla mano, Fanfani aveva tutto il diritto di proporre la sua candidatura. Una sera, anzi di notte, fui chiamato a Roma e mi fu detto autorevolmente che il giornale doveva cambiare linea, non perché a chiederlo era il papa che era il papa, ma perché a chiederlo era il papa che era l’editore. Ne fui sconcertato, e da quel momento ci limitammo a pubblicare l’ANSA, senza commenti; e alla fine fu eletto Saragat.
La seconda volta, più grave, fu a causa della guerra del Vietnam. Noi criticavamo i bombardamenti americani sul Vietnam del Nord, e dicevamo che in tutti i modi si dovesse invece negoziare. La Santa Sede non voleva condannare i bombardamenti, con l’argomento che anche i Vietcong combattevano, e perciò la Chiesa doveva essere equidistante, non poteva stare né con gli uni né con gli altri. Per parte nostra il né, né non ci piaceva e preferivamo il sì sì, no no: i bombardamenti non si dovevano fare. Anche allora ci fu chiesto di cambiare linea; io dissi che non potevamo, perché era una questione di coscienza; mi fu risposto che anche il papa aveva una coscienza; certo, solo che il direttore del giornale non era il papa: quale era allora la coscienza in gioco?
La questione della libertà del giornalista si poneva così in modo inedito. Che cosa succede a un giornalista cattolico quando l’editore è il papa? Qui entrano in conflitto non due obbedienze, ma due libertà: una è la libertà del cristiano, che vale sempre, anche nei confronti del papa; l’altra è la libertà del giornalista dipendente, che arriva fin là dove l’editore lo permette. Per me, a prevalere, fu la libertà del cristiano, e l’editore vestito di bianco non ne fu affatto contento. Più tardi quell’editore chiuse l’Avvenire d’Italia, e diede vita a un nuovo giornale, l’Avvenire. Il cardinale Lercaro ne fu molto turbato, ma ben presto ebbe anche lui i suoi dispiaceri. La lotta per il riassorbimento del Concilio era cominciata. Sarebbe durata a lungo. Fu Pino Alberigo con la sua storia del Vaticano II, a predisporre i mezzi di difesa.
Il tempo della crisi
Il Vietnam, la Palestina, l’America Latina, le lotte per la pace, i Tribunali Russell rilanciati da Lelio Basso con Linda Bimbi e le sorelle brasiliane, riempirono gli anni successivi.
Il ’68 fu la terza rivoluzione della seconda metà del 900. Dopo la rivoluzione del diritto, dopo la conversione del linguaggio della fede, venne col 68 la rivoluzione della vita quotidiana, l’esplodere dei movimenti, il nuovo pensiero femminista, il sogno della libertà, la lotta contro le istituzioni totali, la chiusura dei manicomi, il nuovo diritto di famiglia. Il 68 avrebbe dovuto essere letto come un segno dei tempi; ma così non fu letto né dalla Chiesa né dai partiti, e perciò non poté sprigionare tutte le sue energie.
Nel 1974 si ruppe l’unità politica dei cattolici col referendum sul divorzio; i “cattolici del no” con Scoppola, Carniti, le ACLI, le comunità di base rifiutarono il sì all’abrogazione preteso da Fanfani e da Gabrio Lombardi. Dopo una notte di preghiera anche il piccolo fratello di Gesù Carlo Carretto disse che avrebbe votato no per compassione verso gli emigrati italiani in Germania rimasti senza famiglia e senza amore.
A causa dell’esito del referendum il sistema di potere si incrinò; la democrazia bloccata dalla clausola di esclusione dei comunisti rischiava di non poter essere più nemmeno democrazia. Senza i comunisti, non aveva i numeri. Era venuto dunque il tempo di mettere il dialogo alla prova, come aveva scritto Mario Gozzini: coi comunisti si poteva parlare, e perfino giungere a fare una maggioranza parlamentare con loro. Alla Badia Fiesolana, nel 1976, ospiti di padre Balducci, ci ritrovammo in un centinaio per decidere il da farsi. C’era un invito del PCI a entrare nelle sue liste come indipendenti. Tutti erano d’accordo; alcuni però preferirono continuare il lavoro da intellettuali, altri decisero di mettere le idee nella mischia, di esporsi in prima persona. Non erano solo cattolici: fu decisiva la scelta del pastore Vinay. Nacque così la componente cristiana della Sinistra Indipendente che raggiunse in Parlamento il sen. Ossicini, l’ultimo erede della Sinistra cristiana, e che divenne un punto di riferimento nel dibattito culturale e politico del Paese.
In Parlamento il battesimo del fuoco arrivò per me, appena eletto, con la legge sull’aborto. Bisognava uscire dal sistema carcerario e clandestino previsto dal codice Rocco; ma non potevamo nemmeno ammettere la liberalizzazione ideologica dei radicali. Perciò cercammo una soluzione conforme alla Costituzione ma non dimentica del Vangelo, il che voleva dire che contrastava con quella di tutti i gruppi parlamentari, dai democristiani ai comunisti. Il confronto fu molto duro, ma infine riuscimmo a mettere nella 194 quelle cose che nel gennaio scorso la Chiesa ortodossa ha chiesto al governo Medvedev di mettere ora nella legislazione russa: l’obbligo di una consultazione preventiva con la donna, la ricerca di alternative all’aborto, l’introduzione di un consenso informato e di un tempo di riflessione, nonché la creazione di “centri di crisi”, che noi chiamavamo consultori, nelle cliniche ostetriche. Per queste proposte il Patriarcato di Mosca è stato ora molto apprezzato a Roma e dall’agenzia di stampa della Santa Sede, mentre allora poco ci mancò che partissero le scomuniche, per non parlare della lapidazione quotidiana da parte dell’ “Avvenire”.
In quella legislatura Moro, che aveva osservato come nelle elezioni del 1976 c’erano stati due vincitori, la Democrazia Cristiana e il Partito comunista, cominciò a tessere la sua tela per giungere a una democrazia compiuta, superando l’esclusione che metteva fuori gioco un terzo dell’elettorato. L’America non voleva, e c’era in Italia chi minacciava di scendere con le armi nella strada, se i comunisti fossero stati ammessi al governo.
Ma le armi già le avevano le Brigate Rosse; e lo sbarramento, interno e internazionale, ad una intesa coi comunisti fu tale che Moro fu ucciso, complice la linea della fermezza che lo votò al sacrificio. Io gridai contro la ragion di Stato che ripeteva la sentenza di Caifa per la quale “è bene che un uomo solo muoia per il popolo”, ma il rombo della fermezza coprì ogni voce alternativa.
Fu lì che morirono anche la Democrazia Cristiana e il Partito comunista, pur se la loro agonia si protrasse nel tempo. L’ultimo guizzo profetico venuto dalla DC furono il 26 luglio 1990 le dimissioni dal governo Andreotti di cinque ministri della sinistra democristiana (Martinazzoli, Fracanzani, Misasi, Mattarella e Mannino) per protesta contro la fiducia pretesa da Craxi sulla legge Mammì; era la legge che consegnava tutte e tre le reti televisive e un enorme gettito pubblicitario a Berlusconi, che Martinazzoli accusava di essere un “capitalista da Far West”; ma il fedele Confalonieri replicava che andava bene proprio così, che John Ford e il Far West erano la metafora del progresso. Quanto a noi, l’ultima cosa che facemmo fu la nuova legge sull’obiezione di coscienza, talmente bella che subito dopo per rivalsa abolirono il servizio militare obbligatorio.
Morendo la DC e il PCI, morivano anche le prospettive, forse troppo ambiziose, di imprimere un corso diverso alla storia del mondo. La speranza era stata che, a partire dal caso italiano, lo scontro tra le due culture, occidentale e comunista, potesse non risolversi nell’annichilimento dell’una o dell’altra, ma nella ricomposizione dell’unità umana, nel trascendimento degli opposti, nell’incontro fecondo tra le due culture e anzi tra tutte le culture.
Invece si partì con la corsa al riarmo nucleare, i missili, Comiso, e quando, nonostante il tentativo di Gorbaciov, lo Stato sovietico crollò, il ministro degli esteri De Michelis venne in Parlamento a dire che la guerra fredda era finita e che noi l’avevamo vinta.
Non sapeva che a finire non era solo l’utopia comunista, ma anche il sogno occidentale di una democrazia realizzata, dove la politica moderasse l’economia, il costituzionalismo garantisse i diritti e tenesse entro limiti invalicabili il potere, la giustizia fosse realizzata, e le Repubbliche togliessero gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana.
Il Novecento finì così con una sconfitta. Non vinse né il socialismo né il costituzionalismo liberale; si ripeté il fato che sempre ritorna, del né né: né con lo Stato, né con le Brigate Rosse, né col comunismo né con la democrazia, né con Berlusconi né con i suoi giudici.
Invece venne ripristinata la guerra, il ripudio venne revocato; si cominciò con la guerra del Golfo. Poco prima che cominciassero i bombardamenti, con un gruppo di parlamentari andai a Bagdad, contemplai la città che stava per essere distrutta, e mi feci tradurre in arabo una lettera da far giungere nelle mani di Saddam Hussein, in cui lo scongiuravo, per il suo popolo, per i palestinesi, per la pace, in nome di Allah, di evitare la guerra con gli Stati Uniti: noi sapevamo quale fosse la potenza militare americana, e che cosa poteva voler dire cadere sotto il suo fuoco.
Poi ci fu la guerra con la Iugoslavia, la NATO si propose come nuovo sovrano militare mondiale; a Belgrado, dove ero andato con un una delegazione di “un ponte per”, che portava aiuti, rischiammo di cadere sotto il fuoco amico la notte in cui gli americani, che già avevano distrutto la Zastava e i ponti sul Danubio, bombardarono per soprappiù l’ambasciata cinese e l’albergo Iugoslavia che avevamo appena lasciato.
I guai vennero poi a cascata. Rilegittimata sul piano mondiale la violenza, in Israele si fece strada l’idea che, pur senza la pace, i palestinesi avrebbero potuto cessare di essere un problema; l’Europa, che era stata la grande costruzione ideale e politica del secolo, non ebbe voce, si infilò nelle maglie economicistiche di Maastricht. In Italia cominciò la demolizione della Costituzione; la democrazia rappresentativa, che finalmente avrebbe potuto funzionare essendo venuta meno la “conventio ad excludendum” dei comunisti, fu abbandonata per essere sostituita alla fine con un Parlamento del principe in un sistema bipolare selvaggio, e cominciò la guerra contro i giudici perché non avesse mai più a ripetersi Mani Pulite e i politici infedeli potessero procacciarsi l’impunità.
Quando finì il Novecento, finì anche il Millennio. A Roma, come assessore, avevo organizzato un convegno internazionale nel quale avevamo posto la domanda: che cosa di buono e salutare del Novecento dobbiamo portarci dietro nel nuovo millennio, e che cosa dobbiamo abbandonare, perché non ritorni mai più?
Questa domanda vale anche oggi, quando la situazione è assai grave, il Novecento è rimasto incompiuto, la democrazia è interrotta, l’Italia ha smesso di essere felice e un fuorilegge si aggira per l’Europa parlando in nostro nome.
La mia risposta, che ho voluto darvi qui stasera, è che del Novecento restano, insieme a molti altri doni, quelle tre grandi cose che furono la Costituzione, il Concilio, e il 68. Ma nessuna di queste cose potrà sopravvivere, se non sarà assunta con amore, così come per amore sono state compiute. Non c’è dubbio che alla Costituente uomini come Moro, Dossetti, Basso, La Pira, Lazzati, Calamandrei, e donne come Laura Bianchini, Angela Gotelli, Teresa Mattei, operarono per amore. Non c’è dubbio che Giovanni XXIII ha osato il Concilio per amore. E il ’68 è stato l’utopia dell’amore come alternativa al potere. Oggi si può anche difendere la Costituzione, come noi facciamo, ma senza un amore che abbia l’assillo del bene comune di tutti i cittadini, essa è destinata a sfiorire e a cadere a pezzi, ben oltre l’art. 41; oggi un papa potrà pure rendere formale omaggio al Concilio, ma se non lo assume con amore, anzi con passione, non potrà dare nuova vita alla Chiesa; oggi il 68 è dimenticato e da molti perfino esecrato; ma se le nuove generazioni si incistano nei loro amori privati, e non riscoprono la dimensione comunitaria, politica e pubblica dell’amore, inaridiranno nei loro egoismi. Come diceva Aldo Capitini parlando della nonviolenza, come di una scelta fatta per amore: “ma è l'amore che non si ferma a due, tre esseri, dieci, mille (i propri genitori, i figli, il cane di casa, i concittadini, ecc.); è amore aperto, cioè pronto ad amare altri e nuovi esseri, o ad amare meglio e più profondamente gli esseri già conosciuti. Perciò non è mai perfetto e non finisce mai”.
Oggi, a dieci anni dall’inizio del nuovo Millennio, siamo preoccupati per i giovani e per i figli dei loro figli che vivranno in questo secolo. Quello che noi possiamo fare è di trasmettere loro gli attrezzi e le speranze che noi abbiano avuto nel Novecento, sapendo però che saranno loro a decidere cosa farne, e anche come dotarsi di attrezzi nuovi. Ogni generazione ha le sue vie. Non si tratta perciò di lasciare ai nostri figli degli altarini alla Costituzione al Concilio e alla contestazione, ma di dire il senso che queste cose hanno avuto per noi. E forse, riecheggiando una vecchia parola, potremmo dirlo così: queste sono le tre cose che rimangono: il diritto, la fede, la libertà; ma di tutte più grande è l’amore.
domenica 20 febbraio 2011
Fonte: Blog di Raniero La Valle