di Giannino Piana
“Missione Oggi” n. 10 del dicembre 2010
L'espressione "etica leghista" è di per sé problematica; può essere considerata persino un ossimoro o una contraddizione in termini.
Se infatti — come asseriva Emile Durkheim (Sociologie et philosophie, Paris 1952) — il discrimine tra un comportamento che ha significato morale e uno che non ne ha è costituito dal fine che si persegue, rappresentato, nel primo caso, dall'altro e, nel secondo, da se stessi, allora si potrebbe anche dire che la Lega Nord è senza etica.
L'eticità sussiste infatti in quanto esiste l'altro, e coincide di fatto con l'attenzione che a lui si presta. Si può obiettare che l'impegno della Lega Nord non è di per sé contrassegnato da una logica individualista, ma ha, invece, una chiara valenza sociale. Il che è senz'altro vero. Ma non si può dimenticare che l'altro a cui la Lega Nord si riferisce non è il "diverso" (in tutta la gamma delle espressioni sotto le quali oggi si presenta); è l'io moltiplicato, la proiezione di sé — per dirla con Emmanuel Lévinas — è il "noi" contrapposto a "gli altri", quel "noi" la cui conservazione ed espansione diviene l'obiettivo esclusivo della sua azione sociale e politica.
Un'etica tribale
Al di là del paradosso, rimane in ogni caso il fatto che, se di etica leghista si può parlare, si tratta di un'etica tribale (o clanica), espressione di un comunitarismo chiuso caratterizzato da una forma di appartenenza totalizzante ed escludente, dove l'unica preoccupazione è la salvaguardia dei privilegi del proprio gruppo. L'altro, sia esso l'italiano del Mezzogiorno — il federalismo è concepito come l'anticamera della secessione (alla quale non si è mai rinunciato, se si pensa al disprezzo che viene di continuo gettato sui simboli nazionali: inno, bandiera, ecc.) — o l ' extracomunitario, che viene perseguito con provvedimenti sempre più duri — dagli sgomberi di alcuni insediamenti abusivi come quelli dei rom all'introduzione dell'aggravante di clandestinità in caso di condanna penale, fino alla definizione dell'immigrazione irregolare come "reato" — è considerato come "nemico" ai fini della conservazione della propria identità.
L'ossessione identitaria — così la definisce Francesco Remotti (cfr. L'ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010) — si intreccia con la presunzione della propria superiorità culturale, col riproporsi di una sorta di "etnocentrismo", che si traduce nell'assunzione di atteggiamenti di disprezzo delle altre culture, fino alla riesumazione della xenofobia e del razzismo. Il sospetto e l'ostilità verso il "diverso", verso ogni tipo di diversità — è sintomatico il rifiuto degli stessi omosessuali — è frutto di una logica e di una strategia difensiva, che nega a priori ogni confronto, considerato un potenziale attentato alla propria identità e non un'occasione di reciproco arricchimento. A contribuire allo sviluppo di questo modo di pensare e di agire concorre, in misura consistente, la globalizzazione, che, se favorisce, da un lato, forme positive di interscambio in ogni ambito della vita, dà luogo, dall'altro, a processi di omologazione culturale — è sufficiente ricordare l'egemonia del modello statunitense esportato in tutte le parti del mondo — che hanno come esito lo svuotamento delle culture locali o territoriali. O concorre ancor più la paura di tradizioni religiose e culturali compatte — quella islamica in particolare — che, divenendo, grazie all'espandersi dell'immigrazione, massicciamente presenti sul territorio, possono modificarne radicalmente i connotati. La difesa delle tradizioni cristiane riveste allora un significato del tutto strumentale; la religione è concepita come realtà meramente culturale, come la struttura portante di una civiltà — quella occidentale — che viene contrapposta ad altre, e in particolare a quella islamica.
L'etica che scaturisce da questi atteggiamenti e comportamenti è agli antipodi del messaggio morale cristiano. La prospettiva universalistica propria del Vangelo, che, considerando ogni uomo "prossimo" in quanto creato a "immagine di Dio" e divenuto in Cristo "figlio di Dio", estende il comandamento dell'amore fino all'inclusione del "nemico" o di colui che ci perseguita — la categoria di "nemico" va cancellata dal vocabolario di chi crede — è qui radicalmente ribaltata. Alla solidarietà verso tutti, fondata sull'uguaglianza di ogni uomo in Gesù Cristo, si sostituisce una forma di particolarismo, che fa leva su sentimenti egoistici e rispolvera concetti, come quello di "clandestinità", che nulla hanno a che vedere con la concezione cristiana della vita. Tutto ruota attorno alla conservazione di sé, mentre il cuore della morale evangelica sta nel "perdere la propria vita", facendo prevalere l'interesse dell'altro e vivendo nell'atteggiamento del servizio; sta nella consapevolezza che la terra è di tutti, e che la ricchezza che noi occidentali abbiamo accumulato è la ragione dello stato di povertà in cui molti popoli e interi continenti vivono; è, in altre parole, frutto della situazione di ingiustizia presente nel mondo e di cui tutti dobbiamo sentirci responsabili.
Un'evangelizzazione superficiale
Fa meraviglia che molti che si dicono "cristiani" fatichino a comprendere queste verità; che esistano (e siano numerosi in alcune regioni d'Italia) cattolici che mettono tranquillamente insieme, senza avvertirne la incongruenza e senza farsi scrupolo, partecipazione all'eucaristia domenicale e adesione alla Lega Nord; che le zone tradizionalmente definite "bianche", perché appannaggio in passato del partito dei cattolici e con la più alta percentuale di aderenti alla Chiesa, si siano trasformate in zone nelle quali predominano le "camicie verdi". È un evidente controsenso che denuncia tuttavia quanto scarsa sia stata la penetrazione del messaggio cristiano nelle coscienze. Certo l'adesione alla Lega Nord è anche dettata da motivazioni emotive e irrazionali; dal senso di instabilità e di paura — spesso alimentato ad arte — che provoca la ricerca della sicurezza e spinge a reagire visceralmente nei confronti di tutto ciò che sembra metterla a repentaglio. Ma non si può misconoscere che non si è fatto abbastanza per proporre il messaggio evangelico nella sua radicalità; che ci si è talora accontentati di un cristianesimo sociologico incentrato più sulla tradizione che sulla convinzione; che soprattutto, nel proporre l'etica, si è troppo insistito su alcune questioni — in particolare quelle legate all'uso della sessualità e alla salvaguardia del matrimonio e della famiglia — non prestando altrettanta attenzione alle tematiche sociali e della giustizia o non sottolineandone in maniera sufficiente l'importanza. Né si può negare che l'appartenenza cristiana (ed ecclesiale) si riduca spesso a una realtà di facciata, che non cambia in profondità la vita e non incide sulle scelte quotidiane. D'altra parte, lo stesso magistero della Chiesa non ha sempre manifestato, al riguardo, grande coerenza. Non sono certo mancati interventi molto chiari — tra i quali quelli dello stesso Pontefice — che hanno stigmatizzato alcuni comportamenti della Lega Nord. A mancare è stata in ogni caso una condanna ferma dell'ideologia di tale partito, ideologia che è del tutto antitetica ai contenuti del messaggio evangelico. L'assenza di una coraggiosa denuncia di una visione del mondo e della vita, che discrimina pesantemente chi appartiene ad altre aree sociali e culturali, rischia di suonare come una forma di complicità.
La nuova evangelizzazione del mondo occidentale, che da tempo è al centro delle preoccupazioni della Chiesa cattolica (è recente l'istituzione di un apposito dicastero vaticano deputato a questo compito), deve partire di qui. L'effetto più devastante del secolarismo consiste nell'avere concorso a diffondere una concezione individualistica ed autoreferenziale della vita, che ci rende indifferenti verso il bisogno dell'altro e cancella ogni tensione solidale. È doveroso reagire a questo clima, riproponendo con forza l'attenzione privilegiata verso chi è più debole ed ha più bisogno di aiuto. La "stranierità" è una categoria che appartiene costitutivamente all'esperienza dell'uomo biblico. Per questo l'ospitalità nei confronti dello straniero è considerata in Israele — come del resto in molte altre civiltà presenti in quello stesso periodo nel bacino mediorientale del Mediterraneo (più civili, da questo punto di vista, della nostra!) — un dovere sacro. A questo dovere dobbiamo oggi tutti (credenti e non credenti) assentire, non dimenticando che nel giorno del giudizio saremo interrogati sulla capacità che avremo dimostrato di rispondere, nei fatti e non solo a parole, alle esigenze più pressanti dei nostri fratelli: "Venite, benedetti del Padre mio, perché… ero straniero e mi avete accolto" (Mt 25,35).
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