lunedì 17 maggio 2010
E nell'anno orribile del Vaticano la fiducia nel Papa scende ai minimi
giovedì 13 maggio 2010
Ragionando con Martini di peccato e Resurrezione
I DIALOGHI
di EUGENIO SCALFARI
QUANDO fissammo la data del nostro incontro il cardinale Carlo Maria Martini mi disse che il tema sul quale desiderava si svolgesse la conversazione era la Resurrezione. Ne rimasi un po' stupito e anche preoccupato; gli feci osservare che su quell'argomento avremmo avuto assai poco da dirci. Se c'è un punto sul quale il non credente non ha alcuna possibilità di contatto con un cristiano doc come Martini è proprio quello. Ma il cardinale insistette. "Vedrà - mi disse - avremo tutti e due molte idee da scambiarci su quell'argomento. Del resto la Resurrezione è da tempo il fulcro della mia vita e ho molta voglia di discuterne con lei".
Ci siamo incontrati il 10 maggio scorso a Gallarate, nella casa di riposo della Compagnia di Gesù dove Martini alloggia da qualche anno dopo i mesi passati a Gerusalemme. In due anni questa è la terza volta che vado a trovarlo. Nel frattempo ci siamo scritti e sentiti, ormai siamo in confidenza. Io gli voglio bene e credo che me ne voglia anche lui.
"Lei ha scritto un libro di recente".
"Sì, un viaggio nella modernità. Temo che, se avrà voglia di leggerlo, non sarà d'accordo su molte cose".
"Non ne sia così sicuro: tra un credente come me e un non credente come lei i punti d'incontro sono molti, l'abbiamo già verificato".
"È vero - ho risposto - lei però me ne ha proposto uno, la Resurrezione, che ha più l'aria d'una sfida che di un terreno d'incontro. Chi come me non crede nell'oltremondo, tantomeno crede nella Resurrezione di Gesù e nella nostra. Lei però vede nel Resurrecturis il fulcro della sua vita spirituale. Può spiegarmene la ragione? In fondo si tratta di un miracolo. Pensavo che lei fosse piuttosto scettico sui miracoli".
"La Resurrezione del Cristo non è un miracolo. Il Dio che attraverso il Figlio ha assunto natura umana, dopo la morte sulla croce riassume la sua natura divina e immortale".
"Capisco. Ma la Resurrezione dei morti? Quello è un miracolo".
"È un mistero, un mistero della fede. Lei mi ha chiesto perché rappresenta, per me e per tutta la comunità dei fedeli, il fulcro della nostra vita. Cercherò di spiegarlo. La Resurrezione dei morti è un fatto storicamente positivo. Lo Spirito risorge in tutti noi. Risorge ogni giorno, risorge quando preghiamo, quando ci comunichiamo mangiando il pane e bevendo il vino del Signore, quando risorgono in noi la carità e la speranza del futuro, quello terreno e quello extraterreno. La storia del mondo non sarebbe quella che è se la speranza non alimentasse i nostri sforzi e la carità non illuminasse la nostra vita quotidiana. La Resurrezione dello Spirito è la fiamma che spinge le ruote del mondo. Lei può immaginare un mondo senza carità e senza speranza?".
"Non lo immagino infatti. Ma speranza e carità illuminano anche la vita dei non credenti o almeno di molti di essi. Noi non abbiamo bisogno della fede, l'amore del prossimo, secondo me, deriva da un istinto che opera in ciascuno di noi. È l'istinto della vita, l'istinto della socievolezza, l'istinto della sopravvivenza della specie".
"Lei pensa che quell'istinto sia sempre presente in ogni individuo?".
"Penso che sia sempre latente, ma sempre in contrasto con l'amore di sé. La vita non è che un eterno contrasto tra questi due elementi. La natura umana poggia sulla dinamica di questi due elementi".
"Ogni volta che l'amore del prossimo vince sull'egoismo dell'amore di sé, quello è il momento in cui lo Spirito risorge. Il fatto che lei lo chiami istinto non cambia la tessitura della vita: per me è la Resurrezione".
"Ma non la Resurrezione dei morti".
"Quello è un mistero della fede, un di più che ci aiuta. Io non lo chiamo miracolo, lo chiamo necessità. La necessità di vivere con carità e speranza".
"Cardinal Martini lei ha conosciuto il teologo Hans Küng? Conosce la sua teologia?".
"Eravamo tutti e due nel Concilio Vaticano II. Abbiamo la stessa età, eravamo molto giovani allora, della stessa età di papa Wojtyla. Poi l'ho incontrato varie volte, abbiamo discusso spesso, abbiamo un buon rapporto".
"Küng fa un'affermazione molto netta nel suo ultimo libro. Dice che la fede illumina la vita ma che per raggiungere la fede occorre una condizione preliminare: bisogna innanzitutto amare la vita. Amarla d'un amore profondo. L'amore per la vita è una condizione non sufficiente ma necessaria per la maturazione della coscienza. Lei è d'accordo con questa posizione?".
"Sì, sono d'accordo con Küng. Penso anch'io che bisogna amare profondamente la vita per essere poi illuminati dalla grazia e dalla fede".
"Tutto sta nel capire che cosa s'intenda quando si dice "amare profondamente la vita"".
"Lei che cosa ne pensa? Che cosa vuol dire?".
"Penso a un amore responsabile. Penso a una vita che non umilii la vita degli altri, non le rechi danno ma anzi l'arricchisca di sentimenti e maturi l'umanità che è in ciascuno di noi".
"Questo è anche il mio pensiero di cristiano. L'amore per la vita concepito in questo modo è appunto la condizione necessaria anche se insufficiente che può condurre alla fede. Oppure fermarsi a quella tappa iniziale".
"Una tappa imperfetta? Non perfettamente matura"?
Capii che gli costava molto rispondere a questa mia domanda. Poi disse con un soffio di voce: "Una stilla di divino c'è in ogni uomo. Siamo le foglie dissimili di un unico albero. Non spetta a me distinguere le foglie meglio riuscite. Cristo ha detto: non giudicate".
Pioveva a scroscio fuori dalla finestra. Portarono le pillole per il cardinale e una tazza di tè per me. Le tendine sui vetri erano orlate con un ricamo che mi ricordò la mia casa di bambino e l'immagine di mia madre. Le preghiere che mi faceva recitare la sera prima del sonno. Pensai che i credenti, quelli veri, erano rimasti un po' bambini, ma poi scacciai subito quel pensiero. Ti senti superiore? Mi dissi. Sei polvere e polvere tornerai, perciò lui ha ragione: non giudicare.
Gli dissi: "Alla Resurrezione non credo, ma credo nel Golgota".
"Stavo appunto per domandarglielo. Mi dica".
"Credo nel Golgota perché lì fu celebrato il sacrificio di un giusto, di un debole, di un povero. Quel sacrificio si ripete ogni giorno ed è il vero ed unico peccato del mondo: il sacrificio, la sopraffazione, l'umiliazione del povero, del debole, del giusto. Il Golgota raffigura il peccato del mondo".
Il cardinale mi guardò come si guarda un catecumeno, uno sguardo che mi parve una carezza. Notai che aveva un tic frequente all'occhio sinistro, spesso lo chiudeva ma quando lo riapriva era ancor più espressivo dell'altro. Credo fosse l'effetto della sua sindrome parkinsoniana, la stessa malattia di papa Wojtyla.
Poi mi disse: "Sì, il Golgota rappresenta il peccato del mondo. A volte la Chiesa si occupa di troppi peccati e non tutti nella Chiesa sanno e sentono che quello è il solo, vero peccato: la sopraffazione, l'umiliazione, il disconoscimento del proprio simile tanto più se è debole se è povero se è escluso. E se è un giusto. Uno che non farebbe mai cose che umiliano la dignità della persona. Il Golgota dovrebbe essere l'inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita".
Questa frase mi colpì; non avevo pensato ad un percorso penitenziale. Chi era coinvolto in quel percorso di penitenza? Glielo chiesi. Rispose: "Tutto il mondo".
"Ma il vostro Cristo non era venuto per annunciare la salvezza? Un patto rinnovato tra il Signore e gli uomini?".
"Appunto. Portò la consapevolezza del peccato che era stato commesso e la necessità di espiarlo attraverso la penitenza".
"In un altro nostro incontro lei mi parlò della necessità per la Chiesa di rivisitare il sacramento della confessione. C'è un nesso fra quel suo desiderio e quanto mi ha appena detto?".
"La confessione dev'essere per i cristiani l'inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita. Se il peccato è quello che abbiamo definito come il vero peccato del mondo, l'espiazione non richiede soltanto il risarcimento materiale del danno; l'espiazione comporta molto di più: comporta la rieducazione del peccatore, la scoperta da parte sua di una vita diversa. È la scoperta della gioia e del gaudio che quella vita nuova e diversa si effonde nella sua anima".
"Cardinale, ha presente il romanzo Resurrezione di Tolstoj?".
"Ha ragione di richiamarlo. Quel romanzo racconta esattamente questo percorso. Il protagonista era un ricco e giovine signore che approfitta e stupra una minorenne. Passano gli anni e alla fine il protagonista ha perso tutto il suo patrimonio ed è condannato e deportato in Siberia, ma nella sua coscienza si è fatta strada la sofferenza per quanto ha commesso e la necessità di espiarlo. Quando l'espiazione tocca il culmine la sua anima si apre alla consolazione e alla gioia".
"Lei ha richiamato Tolstoj; anche Manzoni racconta un processo analogo e la gioia che viene dall'espiazione".
"L'Innominato, il suo pentimento, l'affanno di espiare e la pace dell'anima che provoca l'espiazione".
"La pedofilia è uno di quei peccati?".
Non avevo ancora introdotto quel tema, mi pareva che fosse imbarazzante per un porporato affrontarlo in un colloquio con chi fa professione di giornalismo. Ma in un certo senso era lui che mi ci aveva portato. Infatti rispose senza esitazione.
"La pedofilia è il più grave dei peccati, non umilia soltanto la persona e il debole, ma viola addirittura l'innocente. Aggiungo: nei casi che si sono verificati nella Chiesa i colpevoli sono addirittura sacerdoti e vescovi che hanno come primo compito quello di educare i giovani e i giovanissimi e quindi debbono frequentarli per adempiere il loro magistero. Ci può essere peccato più grave di questo?".
"La Chiesa però condanna il peccato ma perdona il peccatore. Non c'è contraddizione? Il Papa ha assunto un atteggiamento assai rigoroso in questi ultimi mesi e ha anche imposto un criterio di trasparenza invitando i vescovi e i parroci a informare l'autorità giudiziaria distinguendo il reato dal peccato. Vorrei capire se tutto ciò rappresenta un'innovazione del diritto canonico".
"Non mi occupo di diritto canonico perché in questo caso ha ben poco rilievo. Quanto alla denuncia del reato all'autorità giudiziaria, direi che si tratta di un atto assolutamente dovuto, la pedofilia è un grave reato in tutti i codici del mondo e va perseguito. Ma, trattandosi di solito di persone avanti negli anni, è lecito prevedere che la pena inflitta dall'autorità giudiziaria avrebbe un'esecuzione relativamente breve. Comunque non è quello il punto. Ritorno al tema della penitenza e dell'espiazione. Si perdona il peccatore che compia un percorso penitenziale che durerà quanto dura la sua vita terrena. L'espiazione dev'essere così intensa da colmare quell'anima e da farle assumere il compito di risarcire chi ha subito il sopruso. Dico risarcire ma non mi riferisco a risarcimenti materiali che pure sono dovuti. Mi riferisco a un rapporto di anime. L'anima del peccatore non avrà altro fine che redimersi, risarcire i sentimenti violati, risorgere. Solo in quel modo ritroverà la pace e la gioia".
Aveva parlato tutto d'un fiato gesticolando e agitandosi sulla sua poltrona; anche la voce era salita di tono, tanto che poi si abbandonò affannato e socchiuse per un momento gli occhi.
Il suo assistente, un giovane prete con un volto intelligente e modi pieni di premura, fece capolino per la seconda volta: quella pausa nella nostra conversazione lo aveva forse allarmato. "Forse è stanco", dissi, ma a quel punto il cardinale fece un gesto per dire che non era affatto stanco e voleva continuare. Gli chiesi se c'erano stati nella storia della Chiesa dei santi che prima erano stati peccatori. "Molti" rispose. "Il fatto più significativo della loro vita è stata appunto la loro conversione dal peccato alla grazia della fede insieme all'inizio di quel percorso penitenziale che li ha accompagnati fino alla morte". Gli chiesi qualche nome. "Gliene dico uno per tutti, il fondatore della nostra Compagnia, Sant'Ignazio. Lo ha raccontato lui stesso, peccò a lungo e fortemente, per dirla con Lutero; la sua conversione fu totale, la sua espiazione lunghissima, accompagnata da un amore per la vita e per le opere tra le quali appunto la fondazione d'una Compagnia che dopo quattrocent'anni è ancora uno dei pilastri della nostra Chiesa".
Era passata più di un'ora e capii che il nostro incontro si avviava alla fine ma avevo ancora molte cose da chiedere. In particolare c'era un tema che mi stava a cuore: il rapporto tra la missione pastorale della Chiesa e la sua organizzazione istituzionale e gerarchica. Insomma la Chiesa come missione e la Chiesa come centro di potere.
"Ricorda, cardinal Martini? Lei mi raccontò, in un nostro precedente incontro, che all'inizio del Conclave che elesse cinque anni fa l'attuale Pontefice lei ricordò ai suoi confratelli riuniti nella Sistina che il Conclave doveva eleggere il Vescovo di Roma. Il Papa infatti ha quella funzione in quanto Vescovo di Roma e tale deve sempre rimanere. Lei non mi spiegò allora il senso di quel suo discorso, vuole dirmelo adesso?".
"Il senso può risultare oscuro per chi non opera nella Chiesa e per la Chiesa, ma per noi è chiarissimo. I Vescovi sono i successori degli apostoli e ad essi Gesù dettò una sola missione: andate e predicate alle genti la verità e la carità, diffondete il Verbo, indicate la via. Questa è la missione dei Vescovi, pastori di anime. Ma Gesù sapeva anche che quella missione doveva essere racchiusa entro una guaina che ne proteggesse l'essenza e la preservasse nel corso dei secoli e dei millenni. Quella che lei chiama istituzione è appunto la guaina organizzativa, le Congregazioni, la Curia, la finanza, i tribunali ecclesiastici. Servono a preservare la missione pastorale che rappresenta l'essenza della Chiesa".
"Il Papa è il Vescovo di Roma ed è il capo della missione pastorale e dell'istituzione. E così?".
"Il Papa è il Vescovo che siede sulla sedia che fu di Pietro. La missione pastorale è il suo compito prevalente. Il fatto che sia anche un teologo o un diplomatico o un organizzatore è secondario. È e dev'essere soprattutto un pastore di anime che esercita quella vocazione insieme a tutti gli altri Vescovi".
"Tuttavia per gran parte della sua storia la Chiesa è stata soprattutto dominata dal potere dell'istituzione, i Papi sono stati dei capi di Stato e perfino dei guerrieri. Il potere temporale ha soverchiato la missione pastorale".
"Non penso che l'abbia soverchiata, ma certo spesso è accaduto che il potere e la sua conservazione abbiano avuto un'importanza eccessiva e la missione pastorale ne abbia subito i contraccolpi".
"È ancora così anche oggi?".
"Questi difetti sussistono ancora, il potere temporale, in altre forme, è ancora una tentazione all'interno della Chiesa. Ma quello che noi chiamiamo il popolo di Dio, i fedeli, il clero con cura di anime, le associazioni e il volontariato cattolico, costituiscono la vera guaina di custodia della nostra essenza".
Le faccio un'ultima domanda perché sto abusando del suo tempo. La Chiesa per compiere la sua missione deve avere contatti con i poteri pubblici che incontra nel suo cammino. Talvolta incontra regimi di dittatura e tirannide, altre volte regimi democratici. Sono forme politiche indifferenti per la Chiesa oppure essa è chiamata a fare una scelta tra di loro?".
"La Chiesa deve fare una scelta anche se deve includere sistemi politici estranei alla sua concezione. Anzi è proprio nei territori dove la libertà e l'eguaglianza sono negate che la testimonianza della Chiesa diventa preziosa. Ma per me non c'è dubbio: la Chiesa che rivendica la libertà religiosa, per ciò stesso condivide principi di libertà, di eguaglianza, di inclusione, di rispetto della dignità delle persone. Questi principi valgono, debbono valere, anche all'interno della Chiesa dove il Papa esercita la sua missione insieme all'Episcopato e al popolo di Dio, nelle varie forme conciliari che la nostra organizzazione prevede".
L'incontro era finito. Il giovane sacerdote era rientrato per aiutare il cardinale ad alzarsi. Io gli dissi: "La prossima volta voglio vederla saltare alla corda". Mi guardò sorridendo e disse: "Torni presto". Poi mi accarezzò il viso con un tocco leggero. Feci altrettanto con lui. Eravamo tutti e due un po' commossi. Fuori continuava a piovere.
da La Repubblica (13 maggio 2010)
martedì 11 maggio 2010
Vietato rassegnarsi: un invito ad alleggerire l'impronta ecologica dell' umanità
da DOC-2256. ROMA-ADISTA. C’è un solo modo per salvaguardare la nostra dignità di essere umani: non soccombere al senso di impotenza e di rassegnazione. Di fronte allo “sfascio” globale - determinato dall’incapacità di accettare una verità ovvia: che, cioè, non si può pretendere una crescita infinita in un pianeta finito - e di fronte al particolare “sfascio” di casa nostra – dove riscuote ancora un consenso significativo la parte politica che “manifesta crescente insofferenza, se non disprezzo, nei confronti di quei principi costituzionali che rappresentano la base della nostra convivenza civile – è di vitale importanza reagire con tutta la forza possibile “sia attraverso forme nonviolente di contestazione che attraverso un lavoro condiviso di approfondimento di quell'insieme di coordinate e scelte di vita che si vanno delineando per costruire un profilo di società ‘alternativa’ a quella esistente”. È quanto sottolinea l'economista e studioso della globalizzazione Cesare Frassineti, che, dopo aver evidenziato, in un recente intervento su Adista (n. 115/09), l’incompatibilità tra cristianesimo e capitalismo, passa ora in rassegna, nell’articolo che qui di seguito riportiamo, le strategie necessarie per “un’inversione del trend degenerativo nel breve e medio termine”. (c. f.)
Con un articolo recentemente pubblicato da Adista (n. 115/09), ho cercato di dimostrare l'incompatibilità tra il cristianesimo e il sistema capitalistico. Le reazioni che ho potuto raccogliere su questo tema sono state sostanzialmente positive, anche se accompagnate da una serie di interrogativi di cui il più ricorrente e sofferto è: che cosa possiamo fare?
È una domanda terribilmente seria, perché il disastro generato dal sistema di potere dominante è di una tale vastità da provocare un senso fortemente diffuso d'impotenza, che, in particolare nel nostro Paese, tende ad assumere il profilo degenerativo della “sindrome di Stoccolma” (identificazione della vittima con il violentatore).
È per me del tutto sconcertante che in Italia possa ancora riscuotere un consenso significativo la parte politica che avidamente si abbevera alle sergenti inquinate del più distruttivo neoliberismo e che manifesta crescente insofferenza, se non disprezzo, nei confronti di quei principi costituzionali che rappresentano la base della nostra convivenza civile.
È innegabile la gravità del degrado in cui ci troviamo a vivere. Ma incombe una domanda ineludibile: vogliamo subire questa deriva come gli interessi mercantili dominanti pretenderebbero, o vogliamo reagire per un elementare rispetto della nostra dignità di esseri umani? Non ho dubbi sulla necessità di reagire sia attraverso forme nonviolente di contestazione che attraverso un lavoro condiviso di approfondimento di quell'insieme di coordinate e scelte di vita che si vanno delineando per costruire un profilo di società “alternativa” a quella esistente.
Non è certo una smania di originalità che ha mosso questi percorsi culturali e operativi: è la sconcertante constatazione che, se dovessimo continuare con le categorie dominanti, la specie umana potrebbe entrare nel vortice del proprio annientamento.
All'origine dello sfascio, un problema da terza elementare: se la Terra su cui viviamo è finita, possiamo pretendere che debba alimentare una crescita infinita? È proprio in questa trappola infernale che ci sta trascinando il sistema socio-economico al potere nel mondo. Infatti, il capitalismo si inebetisce se non cresce sempre di più: o accumula o muore.
Ma il metabolismo sociale è un processo ben definito, come dimostra il calcolo dell’impronta ecologica. Gli esperti non a libro paga delle multinazionali hanno cioè misurato quanto l'umanità richiede alla biosfera in termini di terra ed acqua biologicamente produttive necessarie per fornire le risorse che usiamo o per assorbire i rifiuti che produciamo: se l'unità di misura è l'ettaro globale, quello con produttività pari alla media globale, l’impronta ecologica mondiale è di 17,2 miliardi di ettari, pari a 2,7 ettari globali pro capite. Se ci fosse qualche dubbio sulla vergognosa ingiustizia nella distribuzione delle risorse della Terra, basterebbe richiamare tre dati: l'impronta ecologica degli Stati Uniti è di 9,4 ettari globali pro capite; quella dell’ Italia di 4,8; quella dell’Etiopia di 1,4.
Il fenomeno più allarmante è dovuto all'accertamento che l'impronta ecologica mondiale dell'umanità ha ecceduto la biocapacità totale della Terra - sfruttiamo la natura, cioè, più velocemente di quanto essa non si rigeneri - fin dagli anni '80: questo “sorpasso” si è andato da allora sempre incrementando, tanto che, in base agli ultimi dati disponibili, la domanda (sfruttamento delle risorse) è stata del 30% superiore all'offerta (capacità rigenerativa della bioproduttività dei sistemi naturali). Se questo andamento dovesse persistere, raggiungeremmo il 100% nel 2030, con evidente effetto collasso.
In questa prospettiva, se consideriamo:
a) il fatto che risale a circa mezzo secolo fa il primo studio (“I limiti dello sviluppo” del prestigioso MIT di Boston) che dimostra come non sia possibile ottenere una crescita economica continua in un mondo che presenta limiti biofisici ben definiti;
b) il fallimento della Conferenza di Copenaghen sul cambiamento climatico che doveva affrontare i temi del recupero di efficienza dell'ecosistema,
è del tutto pertinente il richiamo all'immagine tragica di un'umanità che, come i passeggeri del Titanic, balla mentre la nave affonda.
Il tempo sta diventando terribilmente avaro e il vecchio adagio “la speranza è l'ultima a morire” non avrà più valore se non riusciremo a perseguire una destrutturazione profonda delle coordinate socioeconomiche tuttora dominanti.
L'elaborazione culturale alternativa all'esistente, pur sempre a cantiere aperto, è riuscita ad individuare le coordinate portanti di cui cerco di riassumere gli aspetti più significativi.
A - Possiamo iniziare dall’inderogabile superamento del modello economico ancora imperante fondato sull’espan-sione quantitativa (crescita continua), puntando sull'obiet-tivo del miglioramento della vita in termini qualitativi: in sintesi, passare dall'obesità per insaziabile fame di accumulazione all'efficiente snellezza della “sobrietà”, cioè la semplicità ed essenzialità dello stile di vita di ciascuno. Per dirla con il Mahatma Gandhi: “vivere semplicemente affinché gli altri possano semplicemente vivere”.
B - È impellente una riconsiderazione di cosa, come e per chi produrre, in quanto l'esaurimento ormai prossimo delle fonti energetiche non rinnovabili e l'urgenza di risanarne le devastazioni prodotte implicano almeno tre livelli di risposta:
a) intense campagne di risparmio energetico con tecnologie connesse;
b) strutture produttive mirate al soddisfacimento di bisogni effettivi, vitali, mandando ad esaurimento quell'indu-stria dell'inganno che è la pubblicità;
c) sviluppo sempre più intenso delle energie rinnovabili al fine di risanare la biosfera e assicurare, attraverso la crescita delle relative filiere produttive, significative opportunità di occupazione (come sta avvenendo in Germania).
C - In connessione con questi obiettivi e per facilitarne il conseguimento, si pone la necessità di tornare a pensare a lungo termine, cioè di programmare le scelte da compiere: non possiamo lasciarne l'esclusiva alle multinazionali, che programmano molto accanitamente i propri interessi, non certo quelli della collettività.
D - A proposito delle tematiche concernenti la collettività, mi sembra interessante richiamare, in estrema sintesi, i punti riguardanti la distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione; il reddito di cittadinanza; la valorizzazione di quel fondamentale bene comune rappresentato dall'acqua.
In quale direzione muoversi? Tendere a far coincidere nella stessa persona il fattore lavoro e il fattore capitale: l'istituto giuridico già esiste ed è la società cooperativa (art. 45 della Costituzione). Per una applicazione generalizzata il cammino è di lungo respiro perché implica, fra l'altro, un forte impegno educativo da perseguire attraverso la scuola pubblica, perché il mestiere di gestione di impresa possa diventare patrimonio non di caste esclusive ma del maggior numero possibile di persone.
Quest'ultimo, anche grazie al ricatto della delocalizzazione degli assetti produttivi nazionali, il cui esempio macroscopico è offerto dalle multinazionali occidentali che si sono insediate in Cina attivando circa il 60% del flusso di esportazioni di quel Paese, è infatti riuscito a subordinare ai propri obiettivi di profitto le esigenze, pur vitali, del mondo del lavoro, che registra, da almeno un ventennio, un andamento piatto della curva dei salari, nonché un progressivo incremento dei contratti a tempo determinato.
Ho richiamato questo tema perché mi sembra un argomento da manuale nell'esemplificazione delle possibili risposte alla domanda iniziale “che cosa fare?”. Sono stati depositati presso la Corte di Cassazione di Roma i quesiti per i tre referendum sull’acqua che puntano alla restituzione alla collettività della proprietà e gestione di questo bene pubblico vitale: considerata l'entità della posta in gioco, è superfluo sottolineare la necessità del massimo impegno nella campagna.
Per concludere, ritengo che la conversione radicale che ci viene chiesta per recuperare speranza di futuro possa consistere nel considerare la nostra soggettività unica ed irripetibile (la persona) come cellula interagente con miliardi di altre cellule similari che vanno a comporre unitariamente il grande corpo dell'umanità. Tutto sta nelle modalità con cui realizziamo l'interconnessione delle soggettività: se l'approccio si ispira a valori come la giustizia e la nonviolenza, la collettività si svilupperà positivamente; le opzioni contrarie, che possono riassumersi nell'egoismo individuale o di clan, non potranno che essere portatrici di tragiche negatività.
lunedì 10 maggio 2010
NON E’ QUI, E’ RESUSCITATO (Lc 24,5-6)
17 anni dalla morte Caro don Tonino, ho nostalgia di te
lunedì 3 maggio 2010
CLERICO LEGHISMO ALLE PORTE
Di Marcello Vigli
L’eccezionale interesse dei media, ovviamente ben giustificato, data la gravità dei fatti, per lo scandalo scoppiato intorno ai casi di preti pedofili, ha distratto l’attenzione da certi esiti della recente consultazione elettorale apparentemente meno rilevanti, ma ben più inquietanti per il nostro Paese.
Da un lato le gerarchie vaticane, in affanno nel disperato tentativo di negare le responsabilità per la passata omertà sui casi di pedofilia, non disdegnano di congratularsi per la vittoria delle forze antiabortiste. Esponenti della gerarchia italiana giungono a rivendicare il contributo dato con i loro interventi preelettorali alla sconfitta della Bonino e della Bresso. In verità si tratta in parte di millantato credito perché molto maggiore è stato quello offerto dagli errori nei programmi e dalle divisioni interne dei loro sostenitori.
Dall’altro la Lega Nord proclama la sua disponibilità ad ostacolare, se non ad impedire, l’uso della pillola RU 486. Si tratta di qualcosa di più di un’esternazione di due euforici neo Presidenti, per di più ben presto ridimensionata da loro stessi, se la si legge all’interno della costante difesa della presenza del crocefisso nelle scuole e nei tribunali, ben più convincente e aggregante del ritualismo celtico che è sempre stato una manifestazione folcloristica.
Da parte sua la gerarchia italiana non rifiuta lo scambio di favori offerto sulla pelle delle donne dalla Lega che, inebriata del successo elettorale, si proclama ferocemente antiabortista. Questa, ben radicata nelle campagne della padania, è un soggetto più presentabile di Berlusconi, specie nelle regioni “rosse”, dove la Lega pensa di espandersi. Non bisogna dimenticare che anche in esse la presenza dei partiti della sinistra si è molto indebolita e che la Lega può diventare, come lo è nel Veneto, l’unico interlocutore credibile delle Parrocchie.
È però una gerarchia indebolita quella a cui la Lega si offre come alleato fedele.
La difesa, fin qui maldestra, da parte del papa della sua condotta nei confronti delle ”mele marce”, il cui marciume aveva lui stesso condannato in tempi non sospetti, ha raggiunto il ridicolo con l’ultimo intervento del cardinale Bertone a Santiago del Cile. Questi ha affermato che "i numerosi scandali di pedofilia che hanno scosso la Chiesa cattolica sono legati all’omosessualità e non al celibato dei preti". Si è appellato all’opinione di numerosi psichiatri e psicologi che avrebbero dimostrato che non esiste relazione tra celibato e pedofilia e ad altri che avrebbero dimostrato che esiste un legame tra omosessualità e pedofilia. È stato così poco convincente che, nel resoconto dei suoi incontri cileni sull’Osservatore romano, non c’è traccia di queste sue esternazioni e che nel riferirne padre Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, ha cercato di ridimensionarne la portata affermando che si riferivano al solo universo ecclesiastico. Il 60 per cento dei
sacerdoti accusati di abusi su minori manifesterebbe un'attrazione per adolescenti dello stesso sesso. Se si aggiunge questa nuova “gaffe” a quella precedente che accostava l’attacco mediatico contro la Chiesa sulla pedofilia alla Shoah, viene da chiedersi che cosa rimanga nella Curia di oggi della proverbiale capacità diplomatica dei suoi dirigenti e funzionari.
Forse la Lega nella sua scelta non pensa a questa Curia. Probabilmente le sue mire sono molto più modeste ma ben più vantaggiose. Suoi interlocutori saranno non solo i parroci delle campagne padane e i fedeli tradizionalisti, ma Comunione e liberazione, forte del radicamento economico della Compagnia delle Opere ed anche il patriarca di Venezia, uno dei pochi ecclesiastici italiani che non si è identificato con la strategia che ha affidato la difesa dell’onorabilità dell’istituzione ecclesiastica alla teoria del complotto antipapale.
In questa prospettiva il clerico-leghismo può diventare un collante ideologico molto forte per il rafforzamento di quel soggetto politico nuovo che sembra emergere con forza dal successo elettorale della Lega avviata a trasformarsi in partito di governo. Non sarebbe la prima volta che la “in-cultura clericale” serve da incubatrice per la trasformazione dell’antistatalismo “cattolico” in cultura di governo ... autoritario.
Roma, 15 aprile 2010
da www.italialaica.it