lunedì 17 maggio 2010

E nell'anno orribile del Vaticano la fiducia nel Papa scende ai minimi

Divisioni interne e lentezza nelle reazioni: queste le cause del progressivo declino. Solo per il 47% degli italiani la Chiesa è ancora una istituzione credibile
di ILVO DIAMANTI

IERI i fedeli hanno voluto far sentire al Papa la loro solidarietà e il loro sostegno, raccogliendosi, in massa, intorno a lui, a piazza San Pietro. D'altronde, la fiducia nella Chiesa e in Papa Benedetto XVI è scesa sensibilmente, nell'ultimo anno. Espressa, in entrambi i casi, dal 47% degli italiani, secondo il sondaggio di Demos 1. Una tendenza accentuata dalla lunga catena di scandali dell'ultimo anno. Prima, le dimissioni del direttore dell'Avvenire, Dino Boffo, in base ad accuse rivelatesi infondate. Poi, gli episodi di abuso sessuale sui minori, che hanno coinvolto esponenti del clero - basso, medio e alto. In diversi paesi. Dagli USA all'Irlanda. Dalla Germania al Belgio. Al Brasile. All'Italia. Avvenimenti del passato, esplosi di recente.

Per questo non stupisce il calo di credibilità dell'ultimo anno: 3 punti percentuali in meno, la Chiesa; 7 il Papa. Un declino, peraltro, che dura da anni. Rispetto al 2005 (quando è stato eletto Ratzinger) la fiducia nella Chiesa è scesa di 14 punti. Mentre negli ultimi due anni il consenso verso Benedetto XVI si è ridotto di 9 punti percentuali. Senza considerare Papa Wojtyla, il cui credito, nel 2003, era superiore di circa 30 punti. Ma Wojtyla costituiva - e costituisce - un caso difficilmente ripetibile. Per le vicende che ha attraversato (la caduta del Muro e del comunismo, l'attentato...). E per la sua personale e straordinaria capacità di "comunicare" se stesso - attraverso i suoi viaggi e la sua sofferenza. Così, se la Chiesa e lo stesso Pontefice costituiscono ancora un riferimento importante, per la società italiana, la loro capacità di attrazione appare indebolita. Per ragioni che vanno oltre gli scandali recenti. I quali, tuttavia, pesano.

Il sondaggio di Demos sottolinea, infatti, come una larga maggioranza di italiani - il 62% - consideri inadeguata la risposta della Chiesa di fronte agli episodi di pedofilia. Volta, fino a ieri, a minimizzare il fenomeno. Questo giudizio risulta prevalente anche tra i cattolici praticanti, anche se è meno diffuso: 44% (mentre il 29% considera le accuse strumentali, finalizzate a screditare la Chiesa). Ma è condiviso da oltre i due terzi dei cattolici che dichiarano una frequenza sacramentale saltuaria. Cioè: la larga maggioranza di essi (e della popolazione). Si tratta di un orientamento politicamente trasversale. Si riduce solamente al centro. Fra gli elettori dell'Udc.
Come interpretare questo largo dissenso verso l'azione della Chiesa intorno a un fenomeno che, da tempo, è oggetto di denunce ripetute? E, soprattutto, perché - proprio oggi - intacca in modo tanto profondo la credibilità della Chiesa?

La prima spiegazione chiama in causa proprio il "tempo". Troppo tempo, infatti, è passato prima di prendere i provvedimenti necessari, in modo deciso, senza indulgenza. Troppo tempo. Per cui oggi, che nel muro di silenzio del passato si è aperto (più di) un varco, le notizie irrompono, tutte insieme. Invadono i media con un effetto devastante. La stessa condanna del Papa, implacabile. Il suo vagare, per il mondo, dolente, a chiedere perdono alle vittime e ai loro familiari. Agiscono da amplificatori. Fino, quasi, a tracciare una scia di vergogna.
Un secondo ordine di motivi riguarda la Chiesa stessa. Questi episodi, infatti, la indeboliscono perché essa è più debole che in passato. Divisa, al suo interno. Attraversata da tensioni e conflitti. Fra le gerarchie vaticane e la Cei. Ma anche tra le diverse componenti del mondo associativo. Tra le diverse "voci" e i diversi media cattolici. Giornali, emittenti, riviste... Papa Benedetto XVI, in occasione del suo recente viaggio a Fatima, è stato, al proposito, esplicito. E durissimo. Quando ha scandito che: "Le sofferenze della Chiesa vengono proprio dall'interno della Chiesa. (...) La più grande persecuzione della Chiesa non viene dai nemici fuori, ma nasce dal peccato nella Chiesa". Un concetto ribadito ieri, a piazza San Pietro. Contraddicendo - come ha sottolineato Sandro Magister (nel documentatissimo sito: www. espressonline. it) - "i giudizi espressi da molti ecclesiastici, secondo i quali la Chiesa soffre primariamente per gli attacchi che le vengono portati dall'esterno".

Ciò suggerisce, esplicitamente, una terza ragione. Collega il declino della fiducia nella Chiesa alla sua presenza "istituzionale" nella società. Interpretata, in particolare, dal clero. È, infatti, da tempo che, soprattutto in Italia, i seminari sono vuoti. La crisi di vocazioni è acuta, irreversibile. Non a caso, nelle parrocchie, la presenza di preti provenienti da paesi del Terzo Mondo è sempre più ampia. Segno evidente della profonda crisi di legittimazione sociale che, da tempo, ha colpito la figura del sacerdote (come ha argomentato il sociologo Marco Marzano). Fare il prete, da noi, non garantisce benefici né riconoscimento di status. Il che rende più difficile "reclutare" - e soprattutto "selezionare" - figure credibili e credute, in grado di farsi ascoltare. Tanto più di fronte a regole di accesso alla missione (o, in termini laici, alla "professione") tanto selettive e dure. Come il celibato. Oggi incomprensibile: per la società e per la stessa comunità dei cattolici. Visto che i due terzi degli italiani e oltre la metà dei cattolici praticanti si dicono d'accordo sulla possibilità, per i preti, di sposarsi. Così i comportamenti devianti, nell'ambito del clero, oltre che più diffusi, sono divenuti intollerabili (e intollerati). Impossibili da nascondere e minimizzare.

Da ciò l'impressione che oggi la Chiesa, come istituzione, si scopra inadeguata rispetto al proprio compito. Che le stesse regole, costruite e imposte, storicamente, per rafforzare il proprio "rapporto con il mondo", oggi la rendano, più vulnerabile. Che, per questi motivi, svolgere la "professione" - oppure, se si preferisce, la "missione" - di prete sia divenuto sempre più difficile - e, al contempo, meno credibile. Se, per citare di nuovo il Papa, le peggiori sofferenze "vengono proprio dall'interno", allora la Chiesa, più che dalla società, deve difendersi da se stessa.
La Repubblica (17 maggio 2010)

giovedì 13 maggio 2010

Ragionando con Martini di peccato e Resurrezione

I DIALOGHI

Eugenio Scalfari interroga il cardinale Martini su uno dei pilastri della Chiesa cattolica. Ma il tema è anche di quelli che dividono più radicalmente i credenti dai non credenti

di EUGENIO SCALFARI

QUANDO fissammo la data del nostro incontro il cardinale Carlo Maria Martini mi disse che il tema sul quale desiderava si svolgesse la conversazione era la Resurrezione. Ne rimasi un po' stupito e anche preoccupato; gli feci osservare che su quell'argomento avremmo avuto assai poco da dirci. Se c'è un punto sul quale il non credente non ha alcuna possibilità di contatto con un cristiano doc come Martini è proprio quello. Ma il cardinale insistette. "Vedrà - mi disse - avremo tutti e due molte idee da scambiarci su quell'argomento. Del resto la Resurrezione è da tempo il fulcro della mia vita e ho molta voglia di discuterne con lei".

Ci siamo incontrati il 10 maggio scorso a Gallarate, nella casa di riposo della Compagnia di Gesù dove Martini alloggia da qualche anno dopo i mesi passati a Gerusalemme. In due anni questa è la terza volta che vado a trovarlo. Nel frattempo ci siamo scritti e sentiti, ormai siamo in confidenza. Io gli voglio bene e credo che me ne voglia anche lui.

Il tempo, è vero, passa con grande rapidità, ma lui non mi è parso cambiato. La voce si è affievolita, quella sì, è meno sonora o io son più duro d'orecchio; abbiamo avvicinato di più le poltrone sulle quali eravamo seduti.

"Lei ha scritto un libro di recente".

"Sì, un viaggio nella modernità. Temo che, se avrà voglia di leggerlo, non sarà d'accordo su molte cose".

"Non ne sia così sicuro: tra un credente come me e un non credente come lei i punti d'incontro sono molti, l'abbiamo già verificato".

"È vero - ho risposto - lei però me ne ha proposto uno, la Resurrezione, che ha più l'aria d'una sfida che di un terreno d'incontro. Chi come me non crede nell'oltremondo, tantomeno crede nella Resurrezione di Gesù e nella nostra. Lei però vede nel Resurrecturis il fulcro della sua vita spirituale. Può spiegarmene la ragione? In fondo si tratta di un miracolo. Pensavo che lei fosse piuttosto scettico sui miracoli".

"La Resurrezione del Cristo non è un miracolo. Il Dio che attraverso il Figlio ha assunto natura umana, dopo la morte sulla croce riassume la sua natura divina e immortale".

"Capisco. Ma la Resurrezione dei morti? Quello è un miracolo".

"È un mistero, un mistero della fede. Lei mi ha chiesto perché rappresenta, per me e per tutta la comunità dei fedeli, il fulcro della nostra vita. Cercherò di spiegarlo. La Resurrezione dei morti è un fatto storicamente positivo. Lo Spirito risorge in tutti noi. Risorge ogni giorno, risorge quando preghiamo, quando ci comunichiamo mangiando il pane e bevendo il vino del Signore, quando risorgono in noi la carità e la speranza del futuro, quello terreno e quello extraterreno. La storia del mondo non sarebbe quella che è se la speranza non alimentasse i nostri sforzi e la carità non illuminasse la nostra vita quotidiana. La Resurrezione dello Spirito è la fiamma che spinge le ruote del mondo. Lei può immaginare un mondo senza carità e senza speranza?".

"Non lo immagino infatti. Ma speranza e carità illuminano anche la vita dei non credenti o almeno di molti di essi. Noi non abbiamo bisogno della fede, l'amore del prossimo, secondo me, deriva da un istinto che opera in ciascuno di noi. È l'istinto della vita, l'istinto della socievolezza, l'istinto della sopravvivenza della specie".

"Lei pensa che quell'istinto sia sempre presente in ogni individuo?".

"Penso che sia sempre latente, ma sempre in contrasto con l'amore di sé. La vita non è che un eterno contrasto tra questi due elementi. La natura umana poggia sulla dinamica di questi due elementi".

"Ogni volta che l'amore del prossimo vince sull'egoismo dell'amore di sé, quello è il momento in cui lo Spirito risorge. Il fatto che lei lo chiami istinto non cambia la tessitura della vita: per me è la Resurrezione".

"Ma non la Resurrezione dei morti".

"Quello è un mistero della fede, un di più che ci aiuta. Io non lo chiamo miracolo, lo chiamo necessità. La necessità di vivere con carità e speranza".

"Cardinal Martini lei ha conosciuto il teologo Hans Küng? Conosce la sua teologia?".

"Eravamo tutti e due nel Concilio Vaticano II. Abbiamo la stessa età, eravamo molto giovani allora, della stessa età di papa Wojtyla. Poi l'ho incontrato varie volte, abbiamo discusso spesso, abbiamo un buon rapporto".

"Küng fa un'affermazione molto netta nel suo ultimo libro. Dice che la fede illumina la vita ma che per raggiungere la fede occorre una condizione preliminare: bisogna innanzitutto amare la vita. Amarla d'un amore profondo. L'amore per la vita è una condizione non sufficiente ma necessaria per la maturazione della coscienza. Lei è d'accordo con questa posizione?".

"Sì, sono d'accordo con Küng. Penso anch'io che bisogna amare profondamente la vita per essere poi illuminati dalla grazia e dalla fede".

"Tutto sta nel capire che cosa s'intenda quando si dice "amare profondamente la vita"".

"Lei che cosa ne pensa? Che cosa vuol dire?".

"Penso a un amore responsabile. Penso a una vita che non umilii la vita degli altri, non le rechi danno ma anzi l'arricchisca di sentimenti e maturi l'umanità che è in ciascuno di noi".

"Questo è anche il mio pensiero di cristiano. L'amore per la vita concepito in questo modo è appunto la condizione necessaria anche se insufficiente che può condurre alla fede. Oppure fermarsi a quella tappa iniziale".

"Una tappa imperfetta? Non perfettamente matura"?

Capii che gli costava molto rispondere a questa mia domanda. Poi disse con un soffio di voce: "Una stilla di divino c'è in ogni uomo. Siamo le foglie dissimili di un unico albero. Non spetta a me distinguere le foglie meglio riuscite. Cristo ha detto: non giudicate".

Pioveva a scroscio fuori dalla finestra. Portarono le pillole per il cardinale e una tazza di tè per me. Le tendine sui vetri erano orlate con un ricamo che mi ricordò la mia casa di bambino e l'immagine di mia madre. Le preghiere che mi faceva recitare la sera prima del sonno. Pensai che i credenti, quelli veri, erano rimasti un po' bambini, ma poi scacciai subito quel pensiero. Ti senti superiore? Mi dissi. Sei polvere e polvere tornerai, perciò lui ha ragione: non giudicare.

Gli dissi: "Alla Resurrezione non credo, ma credo nel Golgota".

"Stavo appunto per domandarglielo. Mi dica".

"Credo nel Golgota perché lì fu celebrato il sacrificio di un giusto, di un debole, di un povero. Quel sacrificio si ripete ogni giorno ed è il vero ed unico peccato del mondo: il sacrificio, la sopraffazione, l'umiliazione del povero, del debole, del giusto. Il Golgota raffigura il peccato del mondo".

Il cardinale mi guardò come si guarda un catecumeno, uno sguardo che mi parve una carezza. Notai che aveva un tic frequente all'occhio sinistro, spesso lo chiudeva ma quando lo riapriva era ancor più espressivo dell'altro. Credo fosse l'effetto della sua sindrome parkinsoniana, la stessa malattia di papa Wojtyla.

Poi mi disse: "Sì, il Golgota rappresenta il peccato del mondo. A volte la Chiesa si occupa di troppi peccati e non tutti nella Chiesa sanno e sentono che quello è il solo, vero peccato: la sopraffazione, l'umiliazione, il disconoscimento del proprio simile tanto più se è debole se è povero se è escluso. E se è un giusto. Uno che non farebbe mai cose che umiliano la dignità della persona. Il Golgota dovrebbe essere l'inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita".

Questa frase mi colpì; non avevo pensato ad un percorso penitenziale. Chi era coinvolto in quel percorso di penitenza? Glielo chiesi. Rispose: "Tutto il mondo".

"Ma il vostro Cristo non era venuto per annunciare la salvezza? Un patto rinnovato tra il Signore e gli uomini?".

"Appunto. Portò la consapevolezza del peccato che era stato commesso e la necessità di espiarlo attraverso la penitenza".

"In un altro nostro incontro lei mi parlò della necessità per la Chiesa di rivisitare il sacramento della confessione. C'è un nesso fra quel suo desiderio e quanto mi ha appena detto?".

"La confessione dev'essere per i cristiani l'inizio di un percorso penitenziale che dura tutta la vita. Se il peccato è quello che abbiamo definito come il vero peccato del mondo, l'espiazione non richiede soltanto il risarcimento materiale del danno; l'espiazione comporta molto di più: comporta la rieducazione del peccatore, la scoperta da parte sua di una vita diversa. È la scoperta della gioia e del gaudio che quella vita nuova e diversa si effonde nella sua anima".

"Cardinale, ha presente il romanzo Resurrezione di Tolstoj?".

"Ha ragione di richiamarlo. Quel romanzo racconta esattamente questo percorso. Il protagonista era un ricco e giovine signore che approfitta e stupra una minorenne. Passano gli anni e alla fine il protagonista ha perso tutto il suo patrimonio ed è condannato e deportato in Siberia, ma nella sua coscienza si è fatta strada la sofferenza per quanto ha commesso e la necessità di espiarlo. Quando l'espiazione tocca il culmine la sua anima si apre alla consolazione e alla gioia".

"Lei ha richiamato Tolstoj; anche Manzoni racconta un processo analogo e la gioia che viene dall'espiazione".

"L'Innominato, il suo pentimento, l'affanno di espiare e la pace dell'anima che provoca l'espiazione".

"La pedofilia è uno di quei peccati?".

Non avevo ancora introdotto quel tema, mi pareva che fosse imbarazzante per un porporato affrontarlo in un colloquio con chi fa professione di giornalismo. Ma in un certo senso era lui che mi ci aveva portato. Infatti rispose senza esitazione.

"La pedofilia è il più grave dei peccati, non umilia soltanto la persona e il debole, ma viola addirittura l'innocente. Aggiungo: nei casi che si sono verificati nella Chiesa i colpevoli sono addirittura sacerdoti e vescovi che hanno come primo compito quello di educare i giovani e i giovanissimi e quindi debbono frequentarli per adempiere il loro magistero. Ci può essere peccato più grave di questo?".

"La Chiesa però condanna il peccato ma perdona il peccatore. Non c'è contraddizione? Il Papa ha assunto un atteggiamento assai rigoroso in questi ultimi mesi e ha anche imposto un criterio di trasparenza invitando i vescovi e i parroci a informare l'autorità giudiziaria distinguendo il reato dal peccato. Vorrei capire se tutto ciò rappresenta un'innovazione del diritto canonico".

"Non mi occupo di diritto canonico perché in questo caso ha ben poco rilievo. Quanto alla denuncia del reato all'autorità giudiziaria, direi che si tratta di un atto assolutamente dovuto, la pedofilia è un grave reato in tutti i codici del mondo e va perseguito. Ma, trattandosi di solito di persone avanti negli anni, è lecito prevedere che la pena inflitta dall'autorità giudiziaria avrebbe un'esecuzione relativamente breve. Comunque non è quello il punto. Ritorno al tema della penitenza e dell'espiazione. Si perdona il peccatore che compia un percorso penitenziale che durerà quanto dura la sua vita terrena. L'espiazione dev'essere così intensa da colmare quell'anima e da farle assumere il compito di risarcire chi ha subito il sopruso. Dico risarcire ma non mi riferisco a risarcimenti materiali che pure sono dovuti. Mi riferisco a un rapporto di anime. L'anima del peccatore non avrà altro fine che redimersi, risarcire i sentimenti violati, risorgere. Solo in quel modo ritroverà la pace e la gioia".

Aveva parlato tutto d'un fiato gesticolando e agitandosi sulla sua poltrona; anche la voce era salita di tono, tanto che poi si abbandonò affannato e socchiuse per un momento gli occhi.

Il suo assistente, un giovane prete con un volto intelligente e modi pieni di premura, fece capolino per la seconda volta: quella pausa nella nostra conversazione lo aveva forse allarmato. "Forse è stanco", dissi, ma a quel punto il cardinale fece un gesto per dire che non era affatto stanco e voleva continuare. Gli chiesi se c'erano stati nella storia della Chiesa dei santi che prima erano stati peccatori. "Molti" rispose. "Il fatto più significativo della loro vita è stata appunto la loro conversione dal peccato alla grazia della fede insieme all'inizio di quel percorso penitenziale che li ha accompagnati fino alla morte". Gli chiesi qualche nome. "Gliene dico uno per tutti, il fondatore della nostra Compagnia, Sant'Ignazio. Lo ha raccontato lui stesso, peccò a lungo e fortemente, per dirla con Lutero; la sua conversione fu totale, la sua espiazione lunghissima, accompagnata da un amore per la vita e per le opere tra le quali appunto la fondazione d'una Compagnia che dopo quattrocent'anni è ancora uno dei pilastri della nostra Chiesa".

Era passata più di un'ora e capii che il nostro incontro si avviava alla fine ma avevo ancora molte cose da chiedere. In particolare c'era un tema che mi stava a cuore: il rapporto tra la missione pastorale della Chiesa e la sua organizzazione istituzionale e gerarchica. Insomma la Chiesa come missione e la Chiesa come centro di potere.

"Ricorda, cardinal Martini? Lei mi raccontò, in un nostro precedente incontro, che all'inizio del Conclave che elesse cinque anni fa l'attuale Pontefice lei ricordò ai suoi confratelli riuniti nella Sistina che il Conclave doveva eleggere il Vescovo di Roma. Il Papa infatti ha quella funzione in quanto Vescovo di Roma e tale deve sempre rimanere. Lei non mi spiegò allora il senso di quel suo discorso, vuole dirmelo adesso?".

"Il senso può risultare oscuro per chi non opera nella Chiesa e per la Chiesa, ma per noi è chiarissimo. I Vescovi sono i successori degli apostoli e ad essi Gesù dettò una sola missione: andate e predicate alle genti la verità e la carità, diffondete il Verbo, indicate la via. Questa è la missione dei Vescovi, pastori di anime. Ma Gesù sapeva anche che quella missione doveva essere racchiusa entro una guaina che ne proteggesse l'essenza e la preservasse nel corso dei secoli e dei millenni. Quella che lei chiama istituzione è appunto la guaina organizzativa, le Congregazioni, la Curia, la finanza, i tribunali ecclesiastici. Servono a preservare la missione pastorale che rappresenta l'essenza della Chiesa".

"Il Papa è il Vescovo di Roma ed è il capo della missione pastorale e dell'istituzione. E così?".

"Il Papa è il Vescovo che siede sulla sedia che fu di Pietro. La missione pastorale è il suo compito prevalente. Il fatto che sia anche un teologo o un diplomatico o un organizzatore è secondario. È e dev'essere soprattutto un pastore di anime che esercita quella vocazione insieme a tutti gli altri Vescovi".

"Tuttavia per gran parte della sua storia la Chiesa è stata soprattutto dominata dal potere dell'istituzione, i Papi sono stati dei capi di Stato e perfino dei guerrieri. Il potere temporale ha soverchiato la missione pastorale".

"Non penso che l'abbia soverchiata, ma certo spesso è accaduto che il potere e la sua conservazione abbiano avuto un'importanza eccessiva e la missione pastorale ne abbia subito i contraccolpi".

"È ancora così anche oggi?".

"Questi difetti sussistono ancora, il potere temporale, in altre forme, è ancora una tentazione all'interno della Chiesa. Ma quello che noi chiamiamo il popolo di Dio, i fedeli, il clero con cura di anime, le associazioni e il volontariato cattolico, costituiscono la vera guaina di custodia della nostra essenza".

Le faccio un'ultima domanda perché sto abusando del suo tempo. La Chiesa per compiere la sua missione deve avere contatti con i poteri pubblici che incontra nel suo cammino. Talvolta incontra regimi di dittatura e tirannide, altre volte regimi democratici. Sono forme politiche indifferenti per la Chiesa oppure essa è chiamata a fare una scelta tra di loro?".

"La Chiesa deve fare una scelta anche se deve includere sistemi politici estranei alla sua concezione. Anzi è proprio nei territori dove la libertà e l'eguaglianza sono negate che la testimonianza della Chiesa diventa preziosa. Ma per me non c'è dubbio: la Chiesa che rivendica la libertà religiosa, per ciò stesso condivide principi di libertà, di eguaglianza, di inclusione, di rispetto della dignità delle persone. Questi principi valgono, debbono valere, anche all'interno della Chiesa dove il Papa esercita la sua missione insieme all'Episcopato e al popolo di Dio, nelle varie forme conciliari che la nostra organizzazione prevede".

L'incontro era finito. Il giovane sacerdote era rientrato per aiutare il cardinale ad alzarsi. Io gli dissi: "La prossima volta voglio vederla saltare alla corda". Mi guardò sorridendo e disse: "Torni presto". Poi mi accarezzò il viso con un tocco leggero. Feci altrettanto con lui. Eravamo tutti e due un po' commossi. Fuori continuava a piovere.

da La Repubblica (13 maggio 2010)

martedì 11 maggio 2010

Vietato rassegnarsi: un invito ad alleggerire l'impronta ecologica dell' umanità

da DOC-2256. ROMA-ADISTA. C’è un solo modo per salvaguardare la nostra dignità di essere umani: non soccombere al senso di impotenza e di rassegnazione. Di fronte allo “sfascio” globale - determinato dall’incapacità di accettare una verità ovvia: che, cioè, non si può pretendere una crescita infinita in un pianeta finito - e di fronte al particolare “sfascio” di casa nostra – dove riscuote ancora un consenso significativo la parte politica che “manifesta crescente insofferenza, se non disprezzo, nei confronti di quei principi costituzionali che rappresentano la base della nostra convivenza civile – è di vitale importanza reagire con tutta la forza possibile “sia attraverso forme nonviolente di contestazione che attraverso un lavoro condiviso di approfondimento di quell'insieme di coordinate e scelte di vita che si vanno delineando per costruire un profilo di società ‘alternativa’ a quella esistente”. È quanto sottolinea l'economista e studioso della globalizzazione Cesare Frassineti, che, dopo aver evidenziato, in un recente intervento su Adista (n. 115/09), l’incompatibilità tra cristianesimo e capitalismo, passa ora in rassegna, nell’articolo che qui di seguito riportiamo, le strategie necessarie per “un’inversione del trend degenerativo nel breve e medio termine”. (c. f.)

Riprendiamoci il futuro
di Cesare Frassineti

Con un articolo recentemente pubblicato da Adista (n. 115/09), ho cercato di dimostrare l'incompatibilità tra il cristianesimo e il sistema capitalistico. Le reazioni che ho potuto raccogliere su questo tema sono state sostanzialmente positive, anche se accompagnate da una serie di interrogativi di cui il più ricorrente e sofferto è: che cosa possiamo fare?

È una domanda terribilmente seria, perché il disastro generato dal sistema di potere dominante è di una tale vastità da provocare un senso fortemente diffuso d'impotenza, che, in particolare nel nostro Paese, tende ad assumere il profilo degenerativo della “sindrome di Stoccolma” (identificazione della vittima con il violentatore).

È per me del tutto sconcertante che in Italia possa ancora riscuotere un consenso significativo la parte politica che avidamente si abbevera alle sergenti inquinate del più distruttivo neoliberismo e che manifesta crescente insofferenza, se non disprezzo, nei confronti di quei principi costituzionali che rappresentano la base della nostra convivenza civile.

È innegabile la gravità del degrado in cui ci troviamo a vivere. Ma incombe una domanda ineludibile: vogliamo subire questa deriva come gli interessi mercantili dominanti pretenderebbero, o vogliamo reagire per un elementare rispetto della nostra dignità di esseri umani? Non ho dubbi sulla necessità di reagire sia attraverso forme nonviolente di contestazione che attraverso un lavoro condiviso di approfondimento di quell'insieme di coordinate e scelte di vita che si vanno delineando per costruire un profilo di società “alternativa” a quella esistente.

Non è certo una smania di originalità che ha mosso questi percorsi culturali e operativi: è la sconcertante constatazione che, se dovessimo continuare con le categorie dominanti, la specie umana potrebbe entrare nel vortice del proprio annientamento.

All'origine dello sfascio, un problema da terza elementare: se la Terra su cui viviamo è finita, possiamo pretendere che debba alimentare una crescita infinita? È proprio in questa trappola infernale che ci sta trascinando il sistema socio-economico al potere nel mondo. Infatti, il capitalismo si inebetisce se non cresce sempre di più: o accumula o muore.

Ma il metabolismo sociale è un processo ben definito, come dimostra il calcolo dell’impronta ecologica. Gli esperti non a libro paga delle multinazionali hanno cioè misurato quanto l'umanità richiede alla biosfera in termini di terra ed acqua biologicamente produttive necessarie per fornire le risorse che usiamo o per assorbire i rifiuti che produciamo: se l'unità di misura è l'ettaro globale, quello con produttività pari alla media globale, l’impronta ecologica mondiale è di 17,2 miliardi di ettari, pari a 2,7 ettari globali pro capite. Se ci fosse qualche dubbio sulla vergognosa ingiustizia nella distribuzione delle risorse della Terra, basterebbe richiamare tre dati: l'impronta ecologica degli Stati Uniti è di 9,4 ettari globali pro capite; quella dell’ Italia di 4,8; quella dell’Etiopia di 1,4.

Il fenomeno più allarmante è dovuto all'accertamento che l'impronta ecologica mondiale dell'umanità ha ecceduto la biocapacità totale della Terra - sfruttiamo la natura, cioè, più velocemente di quanto essa non si rigeneri - fin dagli anni '80: questo “sorpasso” si è andato da allora sempre incrementando, tanto che, in base agli ultimi dati disponibili, la domanda (sfruttamento delle risorse) è stata del 30% superiore all'offerta (capacità rigenerativa della bioproduttività dei sistemi naturali). Se questo andamento dovesse persistere, raggiungeremmo il 100% nel 2030, con evidente effetto collasso.

In questa prospettiva, se consideriamo:

a) il fatto che risale a circa mezzo secolo fa il primo studio (“I limiti dello sviluppo” del prestigioso MIT di Boston) che dimostra come non sia possibile ottenere una crescita economica continua in un mondo che presenta limiti biofisici ben definiti;

b) il fallimento della Conferenza di Copenaghen sul cambiamento climatico che doveva affrontare i temi del recupero di efficienza dell'ecosistema,

è del tutto pertinente il richiamo all'immagine tragica di un'umanità che, come i passeggeri del Titanic, balla mentre la nave affonda.

Il tempo sta diventando terribilmente avaro e il vecchio adagio “la speranza è l'ultima a morire” non avrà più valore se non riusciremo a perseguire una destrutturazione profonda delle coordinate socioeconomiche tuttora dominanti.

Invertire il trend
La situazione complessiva è talmente compromessa da escludere interventi miracolistici: l'approccio per generare una inversione del trend degenerativo nel breve e medio termine non può che orientarsi verso l'assestamento del metabolismo sociale in una logica di equità nella ripartizione delle risorse disponibili: una strategia che tenda ad assicurare quel guadagno di tempo necessario perché possano svilupparsi filoni di ricerca scientifica e tecnologica che, finalmente liberi dalla follia della ricerca militare e dai condizionamenti soffocanti del regime dei brevetti, siano mirati a ristabilire rapporti innovativi e sostenibili nella sequenza ri-sorse/utilizzi/rifiuti.

L'elaborazione culturale alternativa all'esistente, pur sempre a cantiere aperto, è riuscita ad individuare le coordinate portanti di cui cerco di riassumere gli aspetti più significativi.

A - Possiamo iniziare dall’inderogabile superamento del modello economico ancora imperante fondato sull’espan-sione quantitativa (crescita continua), puntando sull'obiet-tivo del miglioramento della vita in termini qualitativi: in sintesi, passare dall'obesità per insaziabile fame di accumulazione all'efficiente snellezza della “sobrietà”, cioè la semplicità ed essenzialità dello stile di vita di ciascuno. Per dirla con il Mahatma Gandhi: “vivere semplicemente affinché gli altri possano semplicemente vivere”.

B - È impellente una riconsiderazione di cosa, come e per chi produrre, in quanto l'esaurimento ormai prossimo delle fonti energetiche non rinnovabili e l'urgenza di risanarne le devastazioni prodotte implicano almeno tre livelli di risposta:

a) intense campagne di risparmio energetico con tecnologie connesse;

b) strutture produttive mirate al soddisfacimento di bisogni effettivi, vitali, mandando ad esaurimento quell'indu-stria dell'inganno che è la pubblicità;

c) sviluppo sempre più intenso delle energie rinnovabili al fine di risanare la biosfera e assicurare, attraverso la crescita delle relative filiere produttive, significative opportunità di occupazione (come sta avvenendo in Germania).

C - In connessione con questi obiettivi e per facilitarne il conseguimento, si pone la necessità di tornare a pensare a lungo termine, cioè di programmare le scelte da compiere: non possiamo lasciarne l'esclusiva alle multinazionali, che programmano molto accanitamente i propri interessi, non certo quelli della collettività.

D - A proposito delle tematiche concernenti la collettività, mi sembra interessante richiamare, in estrema sintesi, i punti riguardanti la distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione; il reddito di cittadinanza; la valorizzazione di quel fondamentale bene comune rappresentato dall'acqua.

Riconsiderare la proprietà dei mezzi di produzione
1) Per quanto attiene al primo punto, l'istituto giuridico della Società per azioni è fondato sul presupposto che i due fattori portanti dell'economia, il lavoro e il capitale, siano tenuti e gestiti da soggetti sociali diversi: da un lato i titolari della finanza e degli impianti (i capitalisti, appunto) e, dall'altro, i detentori della forza lavoro. Le dinamiche interne di potere sono venute sempre più dimostrando l'ingiu-stizia di fondo di questo istituto giuridico: non è per una sorte maligna che oggi nel mondo il 20% più ricco si appropria dell'86% della ricchezza prodotta. D'altra parte, la situazione si è progressivamente aggravata con l'esplosione delle multinazionali e la concentrazione di potere che ne è seguita, travolgendo ogni logica democratica nell’organizzazione socio-politica a tutto vantaggio degli interessi di una ristrettissima casta manageriale.

In quale direzione muoversi? Tendere a far coincidere nella stessa persona il fattore lavoro e il fattore capitale: l'istituto giuridico già esiste ed è la società cooperativa (art. 45 della Costituzione). Per una applicazione generalizzata il cammino è di lungo respiro perché implica, fra l'altro, un forte impegno educativo da perseguire attraverso la scuola pubblica, perché il mestiere di gestione di impresa possa diventare patrimonio non di caste esclusive ma del maggior numero possibile di persone.

Il reddito di cittadinanza
2) Per riguarda il reddito di cittadinanza (o di esistenza), si tratta di una questione direttamente connessa con la democrazia, che può vivere solo nella misura in cui ogni cittadino - in quanto essere umano - abbia diritto ad un reddito, calibrato sul minimo vitale, che gli consenta una capacità di autodeterminazione. Ciò implica, ovviamente, una politica fiscale decisamente ispirata all'equità nella distribuzione della ricchezza disponibile, compresa l'abolizione di quell'isti-tuto criminale rappresentato dai paradisi fiscali. Le modalità tecniche sono molteplici. Ciò che conta è che il dibattito e le esperienze concrete si sviluppino al massimo, specie in considerazione del processo in atto di precarizzazione invasiva dei rapporti di lavoro. Un processo che ha portato alla scomposizione del lavoro salariato in moltissime tipologie di mansioni produttive e in cui l'evoluzione tecnologica è venuta ad intrecciarsi con la selvaggia globalizzazione del-l'economia, con il conseguente e preoccupante indebolimento della possibilità di autotutela del fattore lavoro rispetto al fattore capitale.

Quest'ultimo, anche grazie al ricatto della delocalizzazione degli assetti produttivi nazionali, il cui esempio macroscopico è offerto dalle multinazionali occidentali che si sono insediate in Cina attivando circa il 60% del flusso di esportazioni di quel Paese, è infatti riuscito a subordinare ai propri obiettivi di profitto le esigenze, pur vitali, del mondo del lavoro, che registra, da almeno un ventennio, un andamento piatto della curva dei salari, nonché un progressivo incremento dei contratti a tempo determinato.

L’acqua bene pubblico
3) Infine, per quanto concerne la tematica dell'acqua, meritano un attento richiamo le modalità con cui si muovono quei poteri forti rappresentati dalle società multinazionali. È noto come queste ultime abbiano fatto fortuna perseguendo esasperate politiche oligopolistiche, nella più cinica contraddizione con le declamate virtù taumaturgiche del libero mercato, come evidenzia la storia delle “sette sorelle” operanti nel settore petrolifero. Orbene, il petrolio è in via di esaurimento e le istituzioni finanziarie, collegate a società multinazionali specializzate nel settore (Veolia, Ondeo, Saur, Acea, ecc.), hanno trovato nel bene acqua un prodotto (considerato una merce) su cui mettere le mani in quanto suscettibile (essendo indispensabile alla vita) di ottimi profitti. Nel nostro Paese, è diventato un tema di particolare attualità perché il Parlamento ha recentemente approvato la “privatizzazione” dell'acqua (cioè l'affidamento ai privati della gestione dell'intero ciclo dell’acqua, dalla captazione alla distribuzione). È un provvedimento coerente con l'ideologia tardo conservatrice cui si ispira l'attuale maggioranza politica, ma una vera aberrazione rispetto al contenuto valoriale del bene in questione. Nel Manifesto dell'Acqua redatto dal “Comitato Internazionale per il contratto mondiale sull'acqua” si dichiara: “In quanto fonte di vita insostituibile per l'ecosistema, l'acqua è un bene vitale che appartiene a tutti gli abitanti della Terra in comune. A nessuno, individualmente o come gruppo, è concesso il diritto di appropriarsene a titolo di proprietà privata”.

Ho richiamato questo tema perché mi sembra un argomento da manuale nell'esemplificazione delle possibili risposte alla domanda iniziale “che cosa fare?”. Sono stati depositati presso la Corte di Cassazione di Roma i quesiti per i tre referendum sull’acqua che puntano alla restituzione alla collettività della proprietà e gestione di questo bene pubblico vitale: considerata l'entità della posta in gioco, è superfluo sottolineare la necessità del massimo impegno nella campagna.

Per concludere, ritengo che la conversione radicale che ci viene chiesta per recuperare speranza di futuro possa consistere nel considerare la nostra soggettività unica ed irripetibile (la persona) come cellula interagente con miliardi di altre cellule similari che vanno a comporre unitariamente il grande corpo dell'umanità. Tutto sta nelle modalità con cui realizziamo l'interconnessione delle soggettività: se l'approccio si ispira a valori come la giustizia e la nonviolenza, la collettività si svilupperà positivamente; le opzioni contrarie, che possono riassumersi nell'egoismo individuale o di clan, non potranno che essere portatrici di tragiche negatività.

lunedì 10 maggio 2010

NON E’ QUI, E’ RESUSCITATO (Lc 24,5-6)

UN BEL DOCUMENTO DELLE COMUNITA' CRISTIANE DI BASE DEL PIEMONTE

Abbiamo un sincero rispetto delle molte migliaia di cristiani che in questi giorni vengono a Torino per vedere la sindone. Non giudichiamo la fede di chi, vedendo l’immagine di un corpo martoriato impressa in un vecchio lenzuolo, prova emozione, si sente confortato nella sua fede. Non ci permettiamo di giudicare la fede di nessuno.

Ne ci interessa argomentare sull’autenticità del “sacro lino” anche se concordiamo con chi ritiene che non abbia veramente avvolto il corpo di Gesù.

Come cristiani appartenenti a piccole comunità sparse per il Piemonte: a Chieri, Torino, Pinerolo, Piossasco, Alba, Cuneo, riteniamo che i vertici della chiesa cattolica abbiano perso una occasione per ricordare al popolo dei credenti che Gesù Cristo non lo incontriamo in un lenzuolo ma nella vita, nella sofferenza, nelle lotte e nelle speranze dei poveri perché Gesù è vivo, è presente nella storia.

Crediamo che non ci sia bisogno di immagini per vivere la fede, Dio si rivolge a noi con la forza della sua parola che ci richiama a cercarlo tra i vivi, a testimoniarlo tra le tante persone che vivono con fatica.

Riteniamo poi gravissima la scelta del vescovo di Torino di utilizzare la sua autorità per concedere alle donne che, nei giorni dell’ostensione della sindone, confessano a un prete di aver abortito, l’ automatica cancellazione della scomunica che, altrettanto automaticamente, era stata loro comminata. Gesù aveva affidato la responsabilità di “legare e sciogliere” alla comunità intera, in una relazione di amore reciproco che è il cuore della sua preghiera eucaristica, così come leggiamo nel Vangelo di Giovanni: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amato” (Gv 15,12). Davanti a lui nessuno aveva tirato la pietra a quell’adultera... Invece questa responsabilità comunitaria è stata trasformata in un “potere” esclusivo dei “sacri gerarchi”.

Viene utilizzata l’occasione dell’ostensione per arrogarsi il diritto di condonare una scomunica data arbitrariamente su un tema così delicato che provoca enormi sofferenze alle donne che lo vivono.

Ci limitiamo a constatare quanto poco amore evangelico ci sia in queste assurde scelte della gerarchia.

La gerarchia della chiesa cattolica insiste nel culto delle reliquie, non ci stupisce ma ci amareggia profondamente, perché così facendo sposta l’attenzione dei fedeli dalla testimonianza alla superstizione.

Noi cristiani delle comunità di base del Piemonte, con umiltà, pensiamo che nell’oggi difficile che stiamo vivendo non dobbiamo cercare il volto di Cristo nelle immagini, nelle reliquie ma nel volto del nostro prossimo qualunque sia la sua razza o la sua fede. Solo tentando di vivere la fede in Gesù in questo modo nella fatica di tutti i giorni, possiamo essere un segno, una testimonianza utile a costruire una società meno divisa, più accogliente, più cristiana.

Le comunità cristiane di base del Piemonte

17 anni dalla morte Caro don Tonino, ho nostalgia di te


di Nichi Vendola

Caro don Tonino, faccio sempre il gioco di provare a guardare il mondo mettendomi dal punto di vista delle tue parole, inseguendo il tuo sguardo, inerpicandomi sulle vette delle tue domande rivolte al gregge ma anche ai pastori, smarrendomi lungo le latitudini sconfinate del tuo pensiero di Dio: del Dio che danza sulle gambe dei poveri, che si fa compagno piuttosto che giudice della storia umana, che carezza i perdenti e annuncia la novella di una resurrezione dalla morte, che stringe un nodo potente tra il divino e l’umano, tra il tempo e l’eternità.

Ma penso che i tuoi occhi, a poter vedere in rapida sequenza il film di questi anni cupi che ci separano dalla tua scomparsa, sarebbero abbagliati dalla luce sporca dello scandalo.

Siamo in un punto buio della notte, ci siamo pure persi la sentinella biblica a cui chiedere notizie sull’arrivo di una agognata alba, forse ci siamo abituati alle luci artificiali e il tempo dell’attesa (dell’Avvento) si è come impigliato in un orologio da supermarket: una immensa nube tossica di oblio, di indolente distrazione, di colpevoli amnesie, assedia il nostro presente. Se non conosci il passato, il suo ritmo e la sua fatica, rischi di non imparare il confine tra il bene e il male, rischi di non imparare l’arte difficile del discernimento.

La coniugazione di Sant’Agostino dei tre tempi del presente (il passato del presente, il presente del presente, il futuro del presente) si sfrangia nell’attimo fuggente del vortice consumista. Il futuro è ipotecato dal virus produttivo ed esistenziale della precarietà. Il mondo è globale nelle truffe finanziarie ma è maledettamente territorializzato nelle patrie della purezza etnica o della solidarietà mafiosa e corporativa.

Vedi, don Tonino, io sento nostalgia struggente della tua voce e della tua cosmogonia, perché ho l’impressione che le cose si siano fatte molto più complicate. L’eroe del nostro tempo non è certo quel tuo samaritano o zingaro o beduino che dinanzi a una qualunque vittima (e dunque dinanzi al calvario di Cristo) «lo vide e ne ebbe compassione». Il sacerdote e il levita che hanno una certa fretta autostradale, lungo la Gerusalemme-Gerico della nostra quotidianità, saranno loro i nostri pedagoghi, la nostra fredda cattedra di realismo benpensante. Oggi vincono e convincono quelli che non hanno tempo per occuparsi di vittime, di poveri, di esuberi, di quelle «pietre di scarto» che nel Vangelo saranno le «pietre angolari» dell’edificio della salvezza: quelli che girano lo sguardo da un’altra parte, quelli che fingono di non vedere l’orrore, quelli sono gli eroi di cartapesta del nostro immaginario e della nostra etica pubblica.

Oggi gli afflitti vengono ulteriormente afflitti e i consolati ulteriormente consolati. Sembra un universo capovolto con un dio seriale e mediatico, talvolta usato come un sedativo o magari un eccitante spirituale, come un Internet teologico. La crisi del mondo scopre le proprie carte persino con uno sconosciuto vulcano islandese che, risvegliandosi ed eruttando, con la sua nube premonitrice avvolge l’intera Europa. Non c’è varco che indichi l’intangibilità della vita: l’economia appiccica prezzi e toglie valore alle persone, la mercificazione non ha senso del limite, anche i bambini sono merce-lavoro esposti a qualsivoglia violazione, i vecchi sono delocalizzati dalla finanza domestica e rottamati o esiliati, le donne pagano a prezzo salatissimo la rivendicazione della propria libertà (cioè della propria dignità), torna la stagione degli acchiappafantasmi. Ognuno ha la propria ossessione, il proprio fantasma da esorcizzare.

Torna, come se la storia si fosse del tutto ammutolita, la ruvida antropologia dell’antisemitismo, c’è chi vorrebbe metter su un Ku Klux Klan in versione padana, gli stranieri sono l’extra della nostra umanità, oltre che della nostra comunità: appunto, extra-comunitari. E poi clandestini. Figli di un altro dio, di nessun dio.

La pace di Isaia, il disarmo dei pacifisti, il digiuno che purifica, l’astinenza dall’odio: dov’è tutto questo, carissimo don Tonino? Dov’è la Pasqua della responsabilità sociale e della convivialità culturale? Anche la Chiesa spesso pare più vocata all’autodifesa che non all’annuncio. L’Annuncio, sì carissimo pastore, quello che tu hai saputo incarnare nella ferialità di un amore senza misura («charitas sine modo»): amore capace di giudizio storico, capace di passione civile, capace di condivisione radicale.

Tu sapevi essere la sentinella che annuncia l’alba. E i tuoi scritti, le tue preghiere, le tue sacre sfuriate, la tua dolcezza accogliente, erano fasci di luce che illuminavano i nostri passi. Ti ho scritto questa lettera in tono apocalittico, perché tu mi hai insegnato che bisogna denunciare il male non per stimolare cinismo e rassegnazione, ma per allenare la coscienza alla ricerca del bene, del giusto, del bello. Ora che comincio a misurare l’agenda dei miei ricordi in decenni, ora che mi capita di avere più confidenza con la tristezza dei lutti, ora sento più forte la tua voce (quella tua salentinità planetaria) che ci dice di rallegrarci, di saper scorgere il profilo dell’aurora anche quando ci si senta sprofondati nel buio degli abissi. Don Tonino, la tua santità continua a dare luce e calore. A me, a tanti. Sempre ci accoglie la tua ala di riserva.

(Tratto da: www.lagazzettadelmezzogiorno.it)

lunedì 3 maggio 2010

CLERICO LEGHISMO ALLE PORTE

Di Marcello Vigli


L’eccezionale interesse dei media, ovviamente ben giustificato, data la gravità dei fatti, per lo scandalo scoppiato intorno ai casi di preti pedofili, ha distratto l’attenzione da certi esiti della recente consultazione elettorale apparentemente meno rilevanti, ma ben più inquietanti per il nostro Paese.

Da un lato le gerarchie vaticane, in affanno nel disperato tentativo di negare le responsabilità per la passata omertà sui casi di pedofilia, non disdegnano di congratularsi per la vittoria delle forze antiabortiste. Esponenti della gerarchia italiana giungono a rivendicare il contributo dato con i loro interventi preelettorali alla sconfitta della Bonino e della Bresso. In verità si tratta in parte di millantato credito perché molto maggiore è stato quello offerto dagli errori nei programmi e dalle divisioni interne dei loro sostenitori.

Dall’altro la Lega Nord proclama la sua disponibilità ad ostacolare, se non ad impedire, l’uso della pillola RU 486. Si tratta di qualcosa di più di un’esternazione di due euforici neo Presidenti, per di più ben presto ridimensionata da loro stessi, se la si legge all’interno della costante difesa della presenza del crocefisso nelle scuole e nei tribunali, ben più convincente e aggregante del ritualismo celtico che è sempre stato una manifestazione folcloristica.

Da parte sua la gerarchia italiana non rifiuta lo scambio di favori offerto sulla pelle delle donne dalla Lega che, inebriata del successo elettorale, si proclama ferocemente antiabortista. Questa, ben radicata nelle campagne della padania, è un soggetto più presentabile di Berlusconi, specie nelle regioni “rosse”, dove la Lega pensa di espandersi. Non bisogna dimenticare che anche in esse la presenza dei partiti della sinistra si è molto indebolita e che la Lega può diventare, come lo è nel Veneto, l’unico interlocutore credibile delle Parrocchie.

È però una gerarchia indebolita quella a cui la Lega si offre come alleato fedele.

La difesa, fin qui maldestra, da parte del papa della sua condotta nei confronti delle ”mele marce”, il cui marciume aveva lui stesso condannato in tempi non sospetti, ha raggiunto il ridicolo con l’ultimo intervento del cardinale Bertone a Santiago del Cile. Questi ha affermato che "i numerosi scandali di pedofilia che hanno scosso la Chiesa cattolica sono legati all’omosessualità e non al celibato dei preti". Si è appellato all’opinione di numerosi psichiatri e psicologi che avrebbero dimostrato che non esiste relazione tra celibato e pedofilia e ad altri che avrebbero dimostrato che esiste un legame tra omosessualità e pedofilia. È stato così poco convincente che, nel resoconto dei suoi incontri cileni sull’Osservatore romano, non c’è traccia di queste sue esternazioni e che nel riferirne padre Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, ha cercato di ridimensionarne la portata affermando che si riferivano al solo universo ecclesiastico. Il 60 per cento dei

sacerdoti accusati di abusi su minori manifesterebbe un'attrazione per adolescenti dello stesso sesso. Se si aggiunge questa nuova “gaffe” a quella precedente che accostava l’attacco mediatico contro la Chiesa sulla pedofilia alla Shoah, viene da chiedersi che cosa rimanga nella Curia di oggi della proverbiale capacità diplomatica dei suoi dirigenti e funzionari.

Forse la Lega nella sua scelta non pensa a questa Curia. Probabilmente le sue mire sono molto più modeste ma ben più vantaggiose. Suoi interlocutori saranno non solo i parroci delle campagne padane e i fedeli tradizionalisti, ma Comunione e liberazione, forte del radicamento economico della Compagnia delle Opere ed anche il patriarca di Venezia, uno dei pochi ecclesiastici italiani che non si è identificato con la strategia che ha affidato la difesa dell’onorabilità dell’istituzione ecclesiastica alla teoria del complotto antipapale.

In questa prospettiva il clerico-leghismo può diventare un collante ideologico molto forte per il rafforzamento di quel soggetto politico nuovo che sembra emergere con forza dal successo elettorale della Lega avviata a trasformarsi in partito di governo. Non sarebbe la prima volta che la “in-cultura clericale” serve da incubatrice per la trasformazione dell’antistatalismo “cattolico” in cultura di governo ... autoritario.
Roma, 15 aprile 2010
da www.italialaica.it

Sull' Appello dei venti preti - Intervento di don Franco Marton


Dagli appunti sull'incontro :"è forte il senso di solitudine in cui si lavora...mi sento molto marginale all'interno della pastorale diocesana", "non sono riuscito nelle Congreghe a interessare e coinvolgere i confratelli...Solitudine e derisione fanno molto male'Y'la mia stessa comunità non ha condiviso, salvo qualche eccezione, la mia scelta. Con la tristezza di sentirmi un fallito", "nella situazione in cui mi trovo non so cosa fare...non so come venirne fuori", "mi sono eclissato dalla diocesi per una mia iniziativa...dobbiamo dare chiara l'impressione che siamo anche noi in fatica, senza pretese e arroganza", "chiediamo a tutti di voler scusare limiti e intemperanze che talora hanno reso forse meno credibili e accettabili le nostre scelte". Personalmente posso confermare la sensazione di isolamento che si è creata intorno all'appello. I preti che l'hanno letto sono stati in silenzio, magari rispettoso ma pur sempre silenzio. Qualche prete giovane ha giudicato i 20 impegnati a servizio dei poveri 'preti datati'. La reazione che ho raccolto è molto vicina a quella riservata ai tre Quaderni di cronistoria della Chiesa di Treviso, 1945-1985, Donilo Zanetti Editore : silenzio. Oppure a quella sentita davanti alla riproposizione di una riflessione sul Concilio : 'siete nostalgici'. Potremmo porci questa domanda: come uscire da un certo isolamento ecclesiale ? Vorrei suggerire prima qualcosa che riguarda i preti e poi qualcosa che riguarda i laici e le parrocchie.

A.Come rompere l'isolamento nel presbiterio ?

Avremo un'accoglienza benevola se saremo capaci di costruire con i preti relazioni personali intense e valide.
- La prima, elementare condizione è essere presenti lì dove loro sono ed esserlo con cordialità, anche se spesso tali incontri sono poco attraenti e interessanti. Restano però 'interessanti nella fede1, anche se non tutti 'attraenti', i nostri amici preti pur insensibili al discorso sui poveri. Dovremmo avere un presenza disinteressata e gratuita, che ci toglierebbe di dosso il marchio di 'élites' che qualche volta ci connota.
Chi ha conosciuto dom Helder Camera, il Vescovo dei poveri da molti (anche confratelli Vescovi) giudicato 'Vescovo rosso', può testimoniare il suo instancabile lavoro per costruire 'relazioni intense e valide' con tutti, anche con chi non condivideva la sua pastorale. E qualcosa sui poveri riusciva a far passare. Chi non l'ha letto, potrebbe essere consolato nelle sue fatiche ecclesiali per mettere i poveri al centro, dalla godibilissima lettura di H.Camara, Roma, due del mattino, Lettere dal Concilio Vaticano II, San Paolo 2008. Un uomo di comunione a servizio dei poveri.
- Dentro queste relazioni umanamente ricche dovremmo recuperare un sguardo di fede,indispensabile a sostenerle. Per Paolo tutti i cristiani sono "membra gli uni degli altri" (Rm 12,5). Già questo è misteriosamente esigente. Ma anche nel presbiterio siamo 'membra gli uni degli altri": in che misura? quali legami stabilisce tra noi il comune presbiterato? Ho l'impressione che su questo punto abbiamo riflettuto poco, nonostante tutte le nostre celebrazioni del Giovedì Santo e nonostante il Concilio.
-Forse non riusciamo a trasformare i nostri incontri tra preti in momenti in cui, almeno qualche volta, ci si 'dice la fede' : in questo clima potrebbe essere meglio comunicata la propria esperienza di servizio ai poveri.

Come proporre espressamente ai preti la necessità di 'porre i poveri al centro'?

- Se per noi l'incontro con i poveri è stato, come diciamo, un dono, una grazia, una rivelazione, che abbiamo ricevuto con gratitudine e umiltà, sarà da proporre agli altri , con la stessa umiltà 'senza arroganze', mettendo in conto che il 'dono' e la 'grazia' possano non essere concessi a tutti.
- Forse ci potrebbe servire la riflessione di Paolo sui 'deboli' e i 'forti' nella fede : cfr Rom 14-15. "Noi che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi" (Rom 15,1). Era aggettivamente vero che Paolo sui cibi e i calendari era 'forte nella fede' ( per grazia !) e che chi si preoccupava dei giorni e dei cibi era 'debole nella fede', non aveva ancora avuto il dono di una fede 'forte1. Si può considerare 'forte nella fede' anche chi ha ricevuto, per grazia, la rivelazione della presenza di Gesù nei poveri e 'debole nella fede', senza colpa, chi ancora non l'ha ricevuta ? Cosa può voler dire , in questo caso, "portare le infermità dei deboli" ? E possono essere ritenuti 'deboli nella fede1 anche quei cristiani di Corinto che non si accorgono di "umiliare i poveri" mangiando e ubriacandosi proprio durante la Cena del Signore : I Cori 1,17-34 ? Vanno condannati duramente come sembra fare Paolo o si possono trattare più benevolmente, come 'i deboli nella fede' di Roma ( che lo stesso Paolo tratta più benevolmente )?
- Quando le proposte concrete di mettere i poveri al centro di una comunità introducono conflitti e rotture, fino a dove si può o si deve spingere la profezia ? La scelta dei poveri può valere la comunione nella chiesa ?

B. Per porre i poveri al centro di una comunità cristiana

Non potranno bastare interventi o iniziative 'straordinari' come 'giornate'/raccolte', azioni su singoli casi: possono suscitare emozioni o anche entusiasmi, ma solo transitori. Tutto questo non va trascurato, tuttavia lo sforzo andrebbe concentrato nel dissodare il retroterra comunitario che porti progressivamente i poveri al centro. Il lavoro va misurato sui tempi lunghi , senza la pretesa di risultati immediati.
a. La Parola di Dio si diffonde sempre di più nelle nostre parrocchie, ma tale diffusione presenta normalmente un grave limite : si tratta di una lettura della Bibbia poco o per nulla legata alla vita. Si può dire che è una lettura 'spiritualistica'. Il legame con la vita o non avviene o si ferma alla vita individuale e familiare. Quell 'appello reciproco’ che si fanno il Vangelo e la vita di cui parlava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi non risuona. Se il Vangelo è destinato alla vita personale e sociale dell'uomo e la vita è aperta di per sé al Vangelo e ne contiene germi,come e in quali spazi rendere operante questa 'complicità1 ?Solo una perseverante 'lettura'della Parola di Dio calata pazientemente nella vita porterà i poveri al centro della comunità. Su tutto questo sarebbe interessante studiare il Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio.
b.Le liturgie domenicali sono per lo più 'astoriche'. Bisognerebbe ripensare la Messa del giorno del Signore, lasciando che la storia irrompa nel rito stesso, senza dissolverlo o snaturarlo. E' possibile farlo, anche se richiede notevole preparazione di laici e preti. E' anche auspicato dal nostro Sinodo diocesano (626). Di domenica in domenica, una liturgia che 'trasuda storia' porterebbe 'spontaneamente' i poveri al centro insieme al Signore della storia.
c.C'è nelle nostre comunità una 'debolezza cristologica' che andrebbe superata. Il Gesù che ordinariamente comunica la catechesi e anche una certa liturgia è un Gesù 'staccato' dal Regno di Dio che è venuto a costruire. Ne risulta un Gesù spiritualizzato e privatizzato, che non è più quello dei Vangeli. Un Gesù senza Regno è un Gesù o senza poveri oppure con i poveri appiattiti sul 'prossimo' genericamente inteso e non centrali, come lo sono nel Regno che Gesù annuncia. E ci può essere anche un Regno senza Gesù o con un riferimento blando alla sua persona. E' il pericolo che può correre chi serve i poveri : nell'urgenza e durezza degli impegni,dimenticare che in loro è presente il Signore stesso che va accolto e 'contemplato'.
Don Franco Marton
Caravaggio, 27 gennaio 2010