da DOC-2256. ROMA-ADISTA. C’è un solo modo per salvaguardare la nostra dignità di essere umani: non soccombere al senso di impotenza e di rassegnazione. Di fronte allo “sfascio” globale - determinato dall’incapacità di accettare una verità ovvia: che, cioè, non si può pretendere una crescita infinita in un pianeta finito - e di fronte al particolare “sfascio” di casa nostra – dove riscuote ancora un consenso significativo la parte politica che “manifesta crescente insofferenza, se non disprezzo, nei confronti di quei principi costituzionali che rappresentano la base della nostra convivenza civile – è di vitale importanza reagire con tutta la forza possibile “sia attraverso forme nonviolente di contestazione che attraverso un lavoro condiviso di approfondimento di quell'insieme di coordinate e scelte di vita che si vanno delineando per costruire un profilo di società ‘alternativa’ a quella esistente”. È quanto sottolinea l'economista e studioso della globalizzazione Cesare Frassineti, che, dopo aver evidenziato, in un recente intervento su Adista (n. 115/09), l’incompatibilità tra cristianesimo e capitalismo, passa ora in rassegna, nell’articolo che qui di seguito riportiamo, le strategie necessarie per “un’inversione del trend degenerativo nel breve e medio termine”. (c. f.)
Con un articolo recentemente pubblicato da Adista (n. 115/09), ho cercato di dimostrare l'incompatibilità tra il cristianesimo e il sistema capitalistico. Le reazioni che ho potuto raccogliere su questo tema sono state sostanzialmente positive, anche se accompagnate da una serie di interrogativi di cui il più ricorrente e sofferto è: che cosa possiamo fare?
È una domanda terribilmente seria, perché il disastro generato dal sistema di potere dominante è di una tale vastità da provocare un senso fortemente diffuso d'impotenza, che, in particolare nel nostro Paese, tende ad assumere il profilo degenerativo della “sindrome di Stoccolma” (identificazione della vittima con il violentatore).
È per me del tutto sconcertante che in Italia possa ancora riscuotere un consenso significativo la parte politica che avidamente si abbevera alle sergenti inquinate del più distruttivo neoliberismo e che manifesta crescente insofferenza, se non disprezzo, nei confronti di quei principi costituzionali che rappresentano la base della nostra convivenza civile.
È innegabile la gravità del degrado in cui ci troviamo a vivere. Ma incombe una domanda ineludibile: vogliamo subire questa deriva come gli interessi mercantili dominanti pretenderebbero, o vogliamo reagire per un elementare rispetto della nostra dignità di esseri umani? Non ho dubbi sulla necessità di reagire sia attraverso forme nonviolente di contestazione che attraverso un lavoro condiviso di approfondimento di quell'insieme di coordinate e scelte di vita che si vanno delineando per costruire un profilo di società “alternativa” a quella esistente.
Non è certo una smania di originalità che ha mosso questi percorsi culturali e operativi: è la sconcertante constatazione che, se dovessimo continuare con le categorie dominanti, la specie umana potrebbe entrare nel vortice del proprio annientamento.
All'origine dello sfascio, un problema da terza elementare: se la Terra su cui viviamo è finita, possiamo pretendere che debba alimentare una crescita infinita? È proprio in questa trappola infernale che ci sta trascinando il sistema socio-economico al potere nel mondo. Infatti, il capitalismo si inebetisce se non cresce sempre di più: o accumula o muore.
Ma il metabolismo sociale è un processo ben definito, come dimostra il calcolo dell’impronta ecologica. Gli esperti non a libro paga delle multinazionali hanno cioè misurato quanto l'umanità richiede alla biosfera in termini di terra ed acqua biologicamente produttive necessarie per fornire le risorse che usiamo o per assorbire i rifiuti che produciamo: se l'unità di misura è l'ettaro globale, quello con produttività pari alla media globale, l’impronta ecologica mondiale è di 17,2 miliardi di ettari, pari a 2,7 ettari globali pro capite. Se ci fosse qualche dubbio sulla vergognosa ingiustizia nella distribuzione delle risorse della Terra, basterebbe richiamare tre dati: l'impronta ecologica degli Stati Uniti è di 9,4 ettari globali pro capite; quella dell’ Italia di 4,8; quella dell’Etiopia di 1,4.
Il fenomeno più allarmante è dovuto all'accertamento che l'impronta ecologica mondiale dell'umanità ha ecceduto la biocapacità totale della Terra - sfruttiamo la natura, cioè, più velocemente di quanto essa non si rigeneri - fin dagli anni '80: questo “sorpasso” si è andato da allora sempre incrementando, tanto che, in base agli ultimi dati disponibili, la domanda (sfruttamento delle risorse) è stata del 30% superiore all'offerta (capacità rigenerativa della bioproduttività dei sistemi naturali). Se questo andamento dovesse persistere, raggiungeremmo il 100% nel 2030, con evidente effetto collasso.
In questa prospettiva, se consideriamo:
a) il fatto che risale a circa mezzo secolo fa il primo studio (“I limiti dello sviluppo” del prestigioso MIT di Boston) che dimostra come non sia possibile ottenere una crescita economica continua in un mondo che presenta limiti biofisici ben definiti;
b) il fallimento della Conferenza di Copenaghen sul cambiamento climatico che doveva affrontare i temi del recupero di efficienza dell'ecosistema,
è del tutto pertinente il richiamo all'immagine tragica di un'umanità che, come i passeggeri del Titanic, balla mentre la nave affonda.
Il tempo sta diventando terribilmente avaro e il vecchio adagio “la speranza è l'ultima a morire” non avrà più valore se non riusciremo a perseguire una destrutturazione profonda delle coordinate socioeconomiche tuttora dominanti.
L'elaborazione culturale alternativa all'esistente, pur sempre a cantiere aperto, è riuscita ad individuare le coordinate portanti di cui cerco di riassumere gli aspetti più significativi.
A - Possiamo iniziare dall’inderogabile superamento del modello economico ancora imperante fondato sull’espan-sione quantitativa (crescita continua), puntando sull'obiet-tivo del miglioramento della vita in termini qualitativi: in sintesi, passare dall'obesità per insaziabile fame di accumulazione all'efficiente snellezza della “sobrietà”, cioè la semplicità ed essenzialità dello stile di vita di ciascuno. Per dirla con il Mahatma Gandhi: “vivere semplicemente affinché gli altri possano semplicemente vivere”.
B - È impellente una riconsiderazione di cosa, come e per chi produrre, in quanto l'esaurimento ormai prossimo delle fonti energetiche non rinnovabili e l'urgenza di risanarne le devastazioni prodotte implicano almeno tre livelli di risposta:
a) intense campagne di risparmio energetico con tecnologie connesse;
b) strutture produttive mirate al soddisfacimento di bisogni effettivi, vitali, mandando ad esaurimento quell'indu-stria dell'inganno che è la pubblicità;
c) sviluppo sempre più intenso delle energie rinnovabili al fine di risanare la biosfera e assicurare, attraverso la crescita delle relative filiere produttive, significative opportunità di occupazione (come sta avvenendo in Germania).
C - In connessione con questi obiettivi e per facilitarne il conseguimento, si pone la necessità di tornare a pensare a lungo termine, cioè di programmare le scelte da compiere: non possiamo lasciarne l'esclusiva alle multinazionali, che programmano molto accanitamente i propri interessi, non certo quelli della collettività.
D - A proposito delle tematiche concernenti la collettività, mi sembra interessante richiamare, in estrema sintesi, i punti riguardanti la distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione; il reddito di cittadinanza; la valorizzazione di quel fondamentale bene comune rappresentato dall'acqua.
In quale direzione muoversi? Tendere a far coincidere nella stessa persona il fattore lavoro e il fattore capitale: l'istituto giuridico già esiste ed è la società cooperativa (art. 45 della Costituzione). Per una applicazione generalizzata il cammino è di lungo respiro perché implica, fra l'altro, un forte impegno educativo da perseguire attraverso la scuola pubblica, perché il mestiere di gestione di impresa possa diventare patrimonio non di caste esclusive ma del maggior numero possibile di persone.
Quest'ultimo, anche grazie al ricatto della delocalizzazione degli assetti produttivi nazionali, il cui esempio macroscopico è offerto dalle multinazionali occidentali che si sono insediate in Cina attivando circa il 60% del flusso di esportazioni di quel Paese, è infatti riuscito a subordinare ai propri obiettivi di profitto le esigenze, pur vitali, del mondo del lavoro, che registra, da almeno un ventennio, un andamento piatto della curva dei salari, nonché un progressivo incremento dei contratti a tempo determinato.
Ho richiamato questo tema perché mi sembra un argomento da manuale nell'esemplificazione delle possibili risposte alla domanda iniziale “che cosa fare?”. Sono stati depositati presso la Corte di Cassazione di Roma i quesiti per i tre referendum sull’acqua che puntano alla restituzione alla collettività della proprietà e gestione di questo bene pubblico vitale: considerata l'entità della posta in gioco, è superfluo sottolineare la necessità del massimo impegno nella campagna.
Per concludere, ritengo che la conversione radicale che ci viene chiesta per recuperare speranza di futuro possa consistere nel considerare la nostra soggettività unica ed irripetibile (la persona) come cellula interagente con miliardi di altre cellule similari che vanno a comporre unitariamente il grande corpo dell'umanità. Tutto sta nelle modalità con cui realizziamo l'interconnessione delle soggettività: se l'approccio si ispira a valori come la giustizia e la nonviolenza, la collettività si svilupperà positivamente; le opzioni contrarie, che possono riassumersi nell'egoismo individuale o di clan, non potranno che essere portatrici di tragiche negatività.
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