lunedì 3 maggio 2010

Sull' Appello dei venti preti - Intervento di don Franco Marton


Dagli appunti sull'incontro :"è forte il senso di solitudine in cui si lavora...mi sento molto marginale all'interno della pastorale diocesana", "non sono riuscito nelle Congreghe a interessare e coinvolgere i confratelli...Solitudine e derisione fanno molto male'Y'la mia stessa comunità non ha condiviso, salvo qualche eccezione, la mia scelta. Con la tristezza di sentirmi un fallito", "nella situazione in cui mi trovo non so cosa fare...non so come venirne fuori", "mi sono eclissato dalla diocesi per una mia iniziativa...dobbiamo dare chiara l'impressione che siamo anche noi in fatica, senza pretese e arroganza", "chiediamo a tutti di voler scusare limiti e intemperanze che talora hanno reso forse meno credibili e accettabili le nostre scelte". Personalmente posso confermare la sensazione di isolamento che si è creata intorno all'appello. I preti che l'hanno letto sono stati in silenzio, magari rispettoso ma pur sempre silenzio. Qualche prete giovane ha giudicato i 20 impegnati a servizio dei poveri 'preti datati'. La reazione che ho raccolto è molto vicina a quella riservata ai tre Quaderni di cronistoria della Chiesa di Treviso, 1945-1985, Donilo Zanetti Editore : silenzio. Oppure a quella sentita davanti alla riproposizione di una riflessione sul Concilio : 'siete nostalgici'. Potremmo porci questa domanda: come uscire da un certo isolamento ecclesiale ? Vorrei suggerire prima qualcosa che riguarda i preti e poi qualcosa che riguarda i laici e le parrocchie.

A.Come rompere l'isolamento nel presbiterio ?

Avremo un'accoglienza benevola se saremo capaci di costruire con i preti relazioni personali intense e valide.
- La prima, elementare condizione è essere presenti lì dove loro sono ed esserlo con cordialità, anche se spesso tali incontri sono poco attraenti e interessanti. Restano però 'interessanti nella fede1, anche se non tutti 'attraenti', i nostri amici preti pur insensibili al discorso sui poveri. Dovremmo avere un presenza disinteressata e gratuita, che ci toglierebbe di dosso il marchio di 'élites' che qualche volta ci connota.
Chi ha conosciuto dom Helder Camera, il Vescovo dei poveri da molti (anche confratelli Vescovi) giudicato 'Vescovo rosso', può testimoniare il suo instancabile lavoro per costruire 'relazioni intense e valide' con tutti, anche con chi non condivideva la sua pastorale. E qualcosa sui poveri riusciva a far passare. Chi non l'ha letto, potrebbe essere consolato nelle sue fatiche ecclesiali per mettere i poveri al centro, dalla godibilissima lettura di H.Camara, Roma, due del mattino, Lettere dal Concilio Vaticano II, San Paolo 2008. Un uomo di comunione a servizio dei poveri.
- Dentro queste relazioni umanamente ricche dovremmo recuperare un sguardo di fede,indispensabile a sostenerle. Per Paolo tutti i cristiani sono "membra gli uni degli altri" (Rm 12,5). Già questo è misteriosamente esigente. Ma anche nel presbiterio siamo 'membra gli uni degli altri": in che misura? quali legami stabilisce tra noi il comune presbiterato? Ho l'impressione che su questo punto abbiamo riflettuto poco, nonostante tutte le nostre celebrazioni del Giovedì Santo e nonostante il Concilio.
-Forse non riusciamo a trasformare i nostri incontri tra preti in momenti in cui, almeno qualche volta, ci si 'dice la fede' : in questo clima potrebbe essere meglio comunicata la propria esperienza di servizio ai poveri.

Come proporre espressamente ai preti la necessità di 'porre i poveri al centro'?

- Se per noi l'incontro con i poveri è stato, come diciamo, un dono, una grazia, una rivelazione, che abbiamo ricevuto con gratitudine e umiltà, sarà da proporre agli altri , con la stessa umiltà 'senza arroganze', mettendo in conto che il 'dono' e la 'grazia' possano non essere concessi a tutti.
- Forse ci potrebbe servire la riflessione di Paolo sui 'deboli' e i 'forti' nella fede : cfr Rom 14-15. "Noi che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi" (Rom 15,1). Era aggettivamente vero che Paolo sui cibi e i calendari era 'forte nella fede' ( per grazia !) e che chi si preoccupava dei giorni e dei cibi era 'debole nella fede', non aveva ancora avuto il dono di una fede 'forte1. Si può considerare 'forte nella fede' anche chi ha ricevuto, per grazia, la rivelazione della presenza di Gesù nei poveri e 'debole nella fede', senza colpa, chi ancora non l'ha ricevuta ? Cosa può voler dire , in questo caso, "portare le infermità dei deboli" ? E possono essere ritenuti 'deboli nella fede1 anche quei cristiani di Corinto che non si accorgono di "umiliare i poveri" mangiando e ubriacandosi proprio durante la Cena del Signore : I Cori 1,17-34 ? Vanno condannati duramente come sembra fare Paolo o si possono trattare più benevolmente, come 'i deboli nella fede' di Roma ( che lo stesso Paolo tratta più benevolmente )?
- Quando le proposte concrete di mettere i poveri al centro di una comunità introducono conflitti e rotture, fino a dove si può o si deve spingere la profezia ? La scelta dei poveri può valere la comunione nella chiesa ?

B. Per porre i poveri al centro di una comunità cristiana

Non potranno bastare interventi o iniziative 'straordinari' come 'giornate'/raccolte', azioni su singoli casi: possono suscitare emozioni o anche entusiasmi, ma solo transitori. Tutto questo non va trascurato, tuttavia lo sforzo andrebbe concentrato nel dissodare il retroterra comunitario che porti progressivamente i poveri al centro. Il lavoro va misurato sui tempi lunghi , senza la pretesa di risultati immediati.
a. La Parola di Dio si diffonde sempre di più nelle nostre parrocchie, ma tale diffusione presenta normalmente un grave limite : si tratta di una lettura della Bibbia poco o per nulla legata alla vita. Si può dire che è una lettura 'spiritualistica'. Il legame con la vita o non avviene o si ferma alla vita individuale e familiare. Quell 'appello reciproco’ che si fanno il Vangelo e la vita di cui parlava Paolo VI nell’Evangelii nuntiandi non risuona. Se il Vangelo è destinato alla vita personale e sociale dell'uomo e la vita è aperta di per sé al Vangelo e ne contiene germi,come e in quali spazi rendere operante questa 'complicità1 ?Solo una perseverante 'lettura'della Parola di Dio calata pazientemente nella vita porterà i poveri al centro della comunità. Su tutto questo sarebbe interessante studiare il Sinodo dei Vescovi sulla Parola di Dio.
b.Le liturgie domenicali sono per lo più 'astoriche'. Bisognerebbe ripensare la Messa del giorno del Signore, lasciando che la storia irrompa nel rito stesso, senza dissolverlo o snaturarlo. E' possibile farlo, anche se richiede notevole preparazione di laici e preti. E' anche auspicato dal nostro Sinodo diocesano (626). Di domenica in domenica, una liturgia che 'trasuda storia' porterebbe 'spontaneamente' i poveri al centro insieme al Signore della storia.
c.C'è nelle nostre comunità una 'debolezza cristologica' che andrebbe superata. Il Gesù che ordinariamente comunica la catechesi e anche una certa liturgia è un Gesù 'staccato' dal Regno di Dio che è venuto a costruire. Ne risulta un Gesù spiritualizzato e privatizzato, che non è più quello dei Vangeli. Un Gesù senza Regno è un Gesù o senza poveri oppure con i poveri appiattiti sul 'prossimo' genericamente inteso e non centrali, come lo sono nel Regno che Gesù annuncia. E ci può essere anche un Regno senza Gesù o con un riferimento blando alla sua persona. E' il pericolo che può correre chi serve i poveri : nell'urgenza e durezza degli impegni,dimenticare che in loro è presente il Signore stesso che va accolto e 'contemplato'.
Don Franco Marton
Caravaggio, 27 gennaio 2010

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