venerdì 6 giugno 2008

La paura e il razzismo

di Gianfranco Bettin

Un piccolo caleidoscopio, che fa vedere tutta l'infamia, tutta la vera, schifosa natura degli «imprenditori politici» della paura e del razzismo, dai quali, si spera, perfino Berlusconi, sui clandestini, forse comincia a prendere le distanze: tale si rivela il blitz di ieri a Mestre di un gruppo di leghisti contro un villaggio per i sinti (che vivono da trent'anni poco lontano, in un insediamento ormai inadeguato) progettato dal Comune di Venezia. Di per sé, il blitz ha raccolto ben poco, una ventina di persone. In compenso, a favore del villaggio, sono schierate tutte le istituzioni della città, associazioni e gente di buona volontà, il Patriarca, la Caritas, mentre prefetto e questore hanno garantito che l'insediamento non ha mai dato problemi.

I 169 sinti sono tutti residenti, tutti regolari, tutti lavorano, tutti i loro bambini vanno a scuola. Il progetto, risalente al '98, era nato sulla base di finanziamenti governativi. Inaffidabili, come sempre in questi casi, i vari governi hanno poi tagliato i fondi. Così il Comune, che si era impegnato con i sinti e con la città attraverso un contratto di quartiere (che prevede nell'area dell'attuale campo un intervento di edilizia residenziale e una struttura per anziani), ha deciso di onorare l'impegno stanziando la cifra necessaria (2,8 milioni di euro).

Nel villaggio si trasferiranno 38 degli attuali nuclei, 130 persone circa, avendo 7 nuclei deciso di accettare un alloggio pubblico. L'area interessata è poco distante dal campo attuale, è più spaziosa, non a ridosso di un quartiere popoloso come è l'attuale e, perciò, rende possibile ampliare e riqualificare l'insediamento. Una soluzione razionale e civilissima, perfino economicamente vantaggiosa per il Comune, perché se tutti i sinti avessero scelto l'alloggio pubblico (a cui avrebbero diritto per cittadinanza, reddito, numero di figli e altri membri) i costi sarebbero stati ben maggiori.

Perché tutto questo livore, dunque? Perché, appunto, gli «imprenditori politici» della paura e del razzismo (la definizione è di Luigi Manconi) non hanno alcun interesse a soluzioni razionali e civili. Al contrario, vogliono alimentare un disordine rancoroso e nevrotico, che finora li ha premiati elettoralmente (Berlusconi compreso, che rischierà di misurarsi con i mostri che ha creato). Non a caso, anche a Mestre, da giorni, stanno cercando l'incidente, per enfatizzare il proprio livoroso discorso. Oggi gran parte dei media, in perfetta sintonia con l'Italia paranoica e irragionevole, ha regalato allo sparuto drappello leghista una visibilità del tutto immotivata, data la miseria non solo dei loro argomenti ma della mobilitazione stessa.

Il Comune, comunque, intende procedere e in città si sta preparando la contro mobilitazione degli anti razzisti. Resta da vedere cosa farà il resto del centro destra, anche alla luce delle differenze createsi ieri con la Lega sul reato di clandestinità. Qui, però, non ci sono «clandestini». Il nuovo insediamento è un segno della città che cresce e migliora. Nessuno potrà fermarla.

Il Manifesto 4 giugno 2008

lunedì 2 giugno 2008

Memoria di realtà intraviste

E' uscito in questi giorni l'ultimo volume curato da don Olivo Bolzon e Marisa Restello, intitolato "Memoria di realtà intraviste", pubblicato da Ogm editore in coedizione con Edizioni del noce - pp. 120, euro 10.00, isbn 978 8895500034 - nella collana "Questioni di identità".

E' un volume che raccoglie la testimonianza di vita sacerdotale di cinque preti che operano in comunione con la Chiesa di Treviso in una situazione che possiamo definire "laica". Laica non nel senso anticlericale o politico della parola, ma soprattutto nel senso sociologico di una vita immersa nel quotidiano, una vita che ha sposato il popolo con particolare attenzione ai più deboli. È una vita che interroga anche la Chiesa ed è propositiva di un impegno di rinnovamento che è necessario anche come cambiamento delle strutture ecclesiastiche: non si tratta di renderle più efficienti - non è sufficiente una migliore organizzazione delle parrocchie per renderle più adeguate al nostro tempo - ma ciò che è necessario è manifestare un’apertura a tutti, soprattutto ai più poveri.

I preti coinvolti in questo volume sono don Claudio Miglioranza (Il dialogo silenzioso), don Giuliano Vallotto (Una vita immersa nel mondo degli esclusi), don Silvio Favrin (Amare la vita), don Umberto Miglioranza (Costruire il Popolo di Dio) e don Fernando Pavanello (Sentirsi "cercati" da Dio): accogliere seriamente nella Chiesa queste figure di preti significa accettare un patrimonio di vita che allarga i confini della parrocchia aprendo nuovi orizzonti, ma per poter accogliere questa proposta è anzitutto necessario superare le varie divisioni ed etichette date ai sacerdoti che non sono né strani né estranei.


INTRODUZIONE
di DON OLIVO BOLZON

La parabola dell'emigrazione
Il nostro popolo veneto si è diffuso in tutti i continenti, sempre attratto da una speranza: gioia per la vita familiare, nostalgia per la comunità del paese, ricerca di lavoro umano, convivialità con tutti. Le statistiche dicono che sono quattro i milioni di veneti emigrati nei vari territori del mondo. È la povera gente stipata sulle navi che partivano per le Americhe a nutrire la speranza anche di coloro che restavano, in un futuro migliore. Sono numerosi ormai gli studi che riportano lettere appassionate e ancor oggi commoventi di tanti nostri conterranei che in Brasile disboscavano la terra, in Argentina allevavano il bestiame, negli Stati Uniti cercavano fortuna adattandosi a qualsiasi tipo di lavoro. Il miracolo del Nordest ha queste radici. Non possiamo cancellare questi ricordi e rischiamo di frantumare il nostro essere popolo se seppelliamo nell'oblio queste vite. L'emigrazione dei primi anni del Novecento ha diviso persone e luoghi, ma senza dividere i cuori. È poi partita l'altra grande ondata di emigranti veneti dopo la Seconda guerra mondiale e questa anche noi più anziani l'abbiamo vista e vissuta. Dalla fine della guerra nel 1945, agli anni Cinquanta, l'emigrazione della nostra gente cominciò ad interessare anche l'Europa del nord, alla ricerca di una vita nuova.

La rivoluzione della pace
Con l'inizio di una nuova stagione europea, senza più guerre interne, pur senza la libertà di poter scegliere il paese dove abitare e il lavoro per vivere, i nostri emigranti sono stati protagonisti di una rivoluzione della pace e della cultura che hanno indicato a tutto il continente un nuovo cammino. Le risorse per riprendersi da tanta distruzione, per rimettere in moto la produttività delle fabbriche, erano nel dopoguerra il carbone e l'acciaio. Perché queste risorse non diventassero ragione di conflitto, nasceva la Comunità europea. Uno dei settori era la Ceca (Comunità europea del carbone e dell'acciaio), ma occorreva estrarlo, il carbone, e occorreva accettare il lavoro più duro che esista, quello del minatore. Chi scrive ha condiviso tanta vita dei minatori italiani in Belgio e nelle miniere ha trovato volti amici, amici della sua infanzia, persone che tornate dai campi di concentramento hanno dovuto riprendere la famosa valigia chiusa da spaghi e ripartire. Erano nostri i lavori della miniera rifiutati dai popoli del nord. Nel bacino della Ruhr gli italiani lavoravano per trovare il ferro necessario alla costruzione di una nuova Europa. A Bruxelles si iniziava a parlare di libera circolazione della manodopera. Ma era manodopera che circolava per necessità. Durante il mio soggiorno in Belgio abbiamo dovuto lottare fortemente per avere il diritto di organizzare il sindacato italiano. I figli degli italiani non potevano essere accolti nella scuola europea, che non tollerava la presenza dei figli dei minatori. La stessa Chiesa ci dava la possibilità di pregare solo quando gli orari delle loro parrocchie permettevano la nostra presenza. Per molto tempo le famiglie non poterono riunirsi là dove il capofamiglia lavorava. Sono state queste lotte a creare una nuova Europa, dove almeno teoricamente la dignità della persona poteva essere riconosciuta, il lavoro valutato come sorgente di uguaglianza, la famiglia come risorsa centrale nella costruzione di una società. Si viveva con tristezza e nostalgia il desiderio della presenza, degli affetti di cui la famiglia è portatrice. Ma si è trattato anche di una rivoluzione a carattere economico.

I frutti dell'emigrazione
Si parla del miracolo economico del Nordest, ma non dura un miracolo se le radici vengono lasciate seccare. Si parla di nuova cultura. Anche il Nordest vive una nuova situazione culturale. Le scuole di ogni tipo prospettano ai giovani un'altra vita, fatta di rapporti più umani e paritari. Da Paese di emigranti l'Italia è diventata meta di immigrazione. Ma per poterci confrontare con questa nuova realtà, è necessario conoscerla e, soprattutto, riconoscerla. Ma cosa ricordiamo, cosa sanno i giovani del nostro passato di emigranti? Per la maggioranza di noi l'emigrazione è libera scelta di lavoro e di vita. Si vive spesso un presente leggero, senza assaporare la sostanza di chi l'ha creato nel passato.
Nei nostri paesi ci sono molte famiglie che ancora ricordano il papà emigrato, la nonna o la zia in Svizzera o nella grande città. Essere rinchiusi nella propria identità non è certamente progresso, ma rinunciare alla propria identità o permettere che sia disciolta nel fiume della vita, è pericoloso.

La testimonianza
Abbiamo scelto di raccontare, attraverso la testimonianza di cinque sacerdoti della Chiesa di Treviso, scelte di vita intesa come dono. Dono ricevuto e a loro volta restituito, nella convinzione che non sono gli insegnamenti teorici né le prediche moralistiche a cambiare la società. Non è nostra intenzione fare di queste persone degli eroi o dei santi, ma semplicemente mostrare come essi, vivendo nel cuore della gente, ne abbiano segnato la vita per l'impegno con cui l'hanno vissuta e per l'amicizia, che è il volto più bello del vivere comunitario. Siamo convinti che ci sia qualcosa di più importante e attraente delle possibilità di shopping, delle auto e di tutte le cose che rischiano di rinchiuderci in tante piccole dimore ben recintate. Siamo convinti che i nostri bambini hanno bisogno più dell'aria libera che dell'assillo delle varie attività sportive e ludiche cui sono sottoposti e che non lasciano spazio alla vita di famiglia. Siamo convinti che la cultura dell'effimero non accoglie la linfa vitale delle nostre radici e desideriamo trasmettere la gioia, la serenità e la pace di una vita che oggi bisogna definire "alternativa".

Per non dimenticare
Ci illudiamo forse, ma abbiamo speranza di poter consegnare alle nuove generazioni valori che sempre più purificati possano rendere la vita più umana. Non siamo interessati ad alcun tipo di proselitismo né politico né religioso. Non abbiamo prodotti da reclamizzare, ma chi legge e accoglie queste testimonianze potrà sentire la freschezza di una vita animata dalla speranza, da un credere forte nei valori che la rendono attraente.
"Il ricordo - scrive Pietro Crespi - non è soltanto impronta e immagine del passato, ma è sforzo e annotazione per trattenere il passato: questa volontà di non lasciare scorrere il passato oltre la frontiera del ricordo risponde all'esigenza di stabilità e di continuità con cui si desidera possedere il presente. Il ricordo non è testimonianza che si limiti ad attualizzare ciò che un tempo è stato, ma soprattutto ciò che è ritenuto importante nell'ottica della realtà presente" .
Il ricordare diventa così dialogo tra generazioni e i fatti ricordati sono la realizzazione di speranze che avevamo e che diventano nuova attesa e forza di impegno per il futuro. Per noi credenti questo raccontare equivale a evangelizzare, offrire cioè la buona notizia, la notizia che pervade il cuore, che consola, che fa la vita beata. Per questo chiamiamo in causa anche la Chiesa, presenza viva accanto agli altri tipi di istituzioni significative come i Comuni, la Provincia e tutte quelle realtà associative che riempiono le giornate sia dei bambini che degli adulti. Vogliamo provare a superare la "religione civile" che è più organizzazione che adesione personale e comunitaria al Vangelo di Cristo. Il futuro dei cristiani è il martirio nel senso etimologico di testimoni, perché essi fanno scelte alternative rispetto ai potenti della storia. L'alternativa è tra chi costruisce un mondo fondato sul rispetto dei diritti della persona, sulla giustizia, sulla fraternità e chi invece va in senso diverso, cioè viola i diritti delle persone, in particolare dei poveri, divide, crea ostilità e sfruttamento. Per i prossimi anni nel Nordest la Chiesa dovrà affrontare il tema sempre più decisivo dell'iniziazione cristiana. Finito il tempo in cui si diventava cristiani per nascita, il problema oggi è che essere cristiano è frutto di una scelta che deve avvenire con dei percorsi consapevoli. La sfida è che l'evangelizzazione non sia un insegnamento illuministico, fatto di idee, ma che sia un radicamento sempre più profondo in Dio, nel Vangelo di Gesù Cristo e nel bene delle persone.

L'immigrazione
I sacerdoti qui intervistati svolgono nella Chiesa trevigiana non tanto un ruolo ecclesiastico, quanto piuttosto una presenza di segno. Senza insistere sulla risaputa realtà del Veneto bianco, dell'istituzione religiosa ancora significativa e capace di aggregazione, è venuto anche per noi il momento della chiarezza e della scelta. Nella grande vicenda della globalizzazione, il territorio trevigiano ha conosciuto la novità dell'immigrazione. Per questo abbiamo insistito sul fenomeno dell'emigrazione come segno della realtà che ha guidato le nostre popolazioni a cercare lavoro in altri paesi. Ora è l'immigrazione che nel Veneto e in particolare nella provincia di Treviso produce un forte cambiamento culturale, sociale, politico e religioso. Non ci riferiamo tanto all'immagine degradata che qualche sporadico avvenimento può aver dato. Un gran numero di persone, uomini e donne di ogni professione e tendenza, ha sottoscritto recentemente un "Manifesto per Treviso Città Aperta" . Pensiamo piuttosto al Veneto bianco che è diventato da un giorno all'altro la "Liga veneta" e poi la "Lega nord". È stato un passaggio indicativo e talmente rapido da stupire anche i più acuti osservatori sociali. È un fenomeno popolare che accarezza le coscienze e diventa popolaresco. Non è nella cultura profonda delle nostre radici. Un convegno tenuto alcuni anni fa a Castelfranco Veneto, e di cui sono stati pubblicati gli Atti con il titolo "Le Tende Castellane", esplorava le radici profonde di una religiosità che a nostro avviso è ancora intimamente viva nella coscienza del popolo. Tuttavia un populismo coniugato con le virtù venete della laboriosità e con l'equivoco ossequio alla cultura dominante, rischia di produrre un qualunquismo pericoloso e lasciare le nuove generazioni in balìa di se stesse. Il benessere prodotto può diventare un malessere religioso, culturale e sociale. Nella zona di Castelfranco Veneto si è vissuto un particolare momento di creatività e di coscienza della propria umana dignità dalla fine degli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta. Il movimento del Centro per l'educazione e la cooperazione agricola trevigiana (Cecat), animato dalla grande figura culturale, morale e politica dell'on. Domenico Sartor, ha accompagnato il passaggio dal mondo rurale al mondo industriale. Nel profondo rispetto della cultura e della tradizione del popolo, questo movimento è riuscito a produrre nuove strutture educative centrate sulla famiglia, come le scuole delle Maisons Familiales, capaci di rendere proprio le famiglie protagoniste di una vita più umana e di un necessario progresso economico e sociale. Attorno alle scuole trovavano consistenza anche le cooperative agricole. La dignità della persona, la vita comunitaria della gente, rendevano concreta l'intuizione dei grandi filosofi cristiani Mounier, Maritain ed altri. Alcuni sacerdoti accompagnarono con piena dedizione questo sviluppo che rispondeva in maniera così puntuale ai desideri di un popolo che nella religione vedeva forza e luce e nella cultura proposta il fedele sviluppo delle proprie tradizioni.

Preti di sinistra?
Nella testimonianza di mons. Fernando Pavanello, come in quella di don Umberto Miglioranza si fa riferimento, a figure come quella di mons. Pietro Pavan, che hanno determinato e segnato la loro vita. L'idea dell'adulto nella fede, l'adulto che si assume le proprie responsabilità, era dominante nel pensiero e nell'azione degli anni del dopoguerra. Il servizio di mons. Pavanello all'America Latina nel Seminario nazionale di Verona e il suo impegno nella Caritas e nell'accompagnamento delle famiglie e dei volontari a servizio dei diversamente abili sono la fede che diventa opera e la carità che si fa opzione per i più poveri.
Dei cinque sacerdoti intervistati, due hanno passato alcuni anni come parroci. Tutti e cinque però ora operano sempre in comunione con la Chiesa di Treviso, ma in una situazione che possiamo definire "laica". Laica non nel senso anticlericale o politico della parola, ma soprattutto nel senso sociologico di una vita immersa nel quotidiano, una vita che ha sposato il popolo con particolare attenzione ai più deboli. È una vita che interroga anche la Chiesa ed è propositiva di un impegno di rinnovamento che è necessario anche come cambiamento delle strutture ecclesiastiche. Non si tratta di renderle più efficienti, non è sufficiente una migliore organizzazione delle parrocchie per renderle più adeguate al nostro tempo. Ciò che è necessario è manifestare un'apertura a tutti, ma soprattutto, come diceva papa Giovanni XXIII, realizzare una Chiesa per i poveri. Mi permetto, al riguardo, di citare un discorso che l'Arcivescovo di Cracovia fece ai Vescovi polacchi nel 1963 e che anche oggi può esserci di aiuto. Affermava l'Arcivescovo nella sua analisi del cattolicesimo polacco: "Si è venuta a creare una sorta di cattolicesimo di asilo politico. La gente vede nella chiesa un luogo di rifugio, un luogo in cui esprimerci liberamente. Le assemblee liturgiche infondono in essi una sensazione di forza e sicurezza... Il cristianesimo si riduce così a un fatto amministrativo... La sfida era di convertire i cosiddetti cattolici amministrativi in cattolici effettivi''. Accogliere seriamente nella Chiesa queste figure di preti, significa quindi accettare un patrimonio di vita che allarga i confini della parrocchia aprendo nuovi orizzonti, ma per poter accogliere questa proposta è anzitutto necessario superare le varie divisioni ed etichette date ai sacerdoti che non sono né strani né estranei.

Segni dei tempi
Tutti questi nostri confratelli sono impegnati nelle situazioni più critiche della nostra società: per mons. Fernando è "Il nostro domani" che urge a edificare non solo nuove strutture, ma un focolare di accoglienza e di aiuto reciproco. Per don Umberto è la presenza e l'azione che dà dignità all'anziano e lo rende non semplice oggetto di assistenza, ma soggetto costruttivo di una nuova società umana.
La diocesi ha ufficialmente riconosciuto l'impegno di don Giuliano nel dialogo, che non è solo scambio intellettuale e dottrinale, ma relazione piena con le scelte di vita degli immigrati di religione musulmana. Don Claudio vive in una casa che non è la canonica, ma è in piena comunione con i preti. Condivide la quotidianità della vita con un gruppo di senegalesi tutti musulmani. Don Silvio ha acquistato nei tanti anni di servizio all'Ospedale il senso del bisogno di chi è malato, ed è ancora attivo non in un semplice ricordo della vita passata ma nella realtà sanitaria di oggi. Nelle storie di questi presbiteri c'è un tirocinio molto significativo: è la Chiesa dei poveri che li ha educati; è la realtà laica che uomini e donne vivono ogni giorno che li impegna in una presenza che sia significativa di fraternità e di serenità, portando la benedizione di Dio a questa umanità. La Chiesa, per la sua missione, ha bisogno di valorizzare queste presenze e la nuova società che sta nascendo; le generazioni che si stanno avvicendando hanno bisogno di questa evangelizzazione. Tutti sono stati contagiati nel loro vivere sacerdotale da una vita vissuta in un serio contatto con le Chiese povere del Terzo mondo, con le Comunità di base dell'America Latina, con i bisogni sanitari dell'Africa. Educati da queste Chiese, hanno fatto scelte di vita missionaria nella nostra realtà. Capita ancora che siano etichettati come "preti di sinistra". Ricordo in una concelebrazione con loro fatta nella mia parrocchia, l'esclamazione benevola e ammiccante del sacrestano: "Oggi c'è qui il raduno dei preti di sinistra". In realtà la loro vita non è inserita nella pastorale ordinaria e non si svolge, come diceva Karol Wojtyla, tra i cristiani amministrativi. Raccogliere le loro testimonianze ci ha aiutato a confermare la nostra fede. Il terreno della Chiesa è la laicità e il Regno dei cieli è sempre più nell'evidenza anche statistica il piccolo seme, il pugno di lievito. Il loro modo di vivere ci aiuta a comprendere che la Chiesa non è l'organizzazione amministrativa dei cristiani; la parrocchia non è speculare al comune, la società cristiana non esiste in se stessa e per se stessa, ma è fermento, è pizzico di sale che dà sapore. L'annuncio evangelico è un fatto di vita, la Parola ha sostanza quando rivela la vita di chi la pronuncia. Non possiamo non riferirci a quello che Gesù diceva alla Samaritana: "Ma credimi: viene il momento in cui l'adorazione di Dio non sarà più legata a questo monte o a Gerusalemme; viene un'ora, anzi è già venuta, in cui gli uomini adoreranno il Padre guidati dallo Spirito e dalla verità di Dio. Dio è spirito. Chi lo adora deve lasciarsi guidare dallo Spirito e dalla verità di Dio" (Giovanni 4,21-24). Per noi, che con crescente attenzione abbiamo raccolto il loro racconto, è stato un gratificante esercizio della speranza in una umanità sempre più invitata al progresso della sapienza del vivere, in una Chiesa che sia sempre più capace di visibilità nel suo servizio al mondo e in particolare ai più poveri. Un messaggio senza teorie.

domenica 1 giugno 2008

Due libri da leggere

"Diario" di Don Olivo Bolzon

Pochi anni prima della contestazione giovanile del secolo scorso, e precisamente nel 1964, un prete trevigiano di 32 anni si ritrovò a girare per le strade della città tedesca di Colonia, indossando una divisa e lavorando come spazzino: aveva già nove anni di "messa" sulle spalle e conosceva bene il mondo dell'emigrazione italiana, soprattutto in Belgio, ma volle comunque fare quell'esperienza che gli rivelò come fosse alienante, duro, monotono e senza alcuna prospettiva per il futuro, il lavoro dei nostri emigranti all'estero.
Quell'esperienza è stata ora raccolta in un volume e l'autore è don Olivo Bolzon ("Diario", Ogm editore 2007, isbn 978-88-95500-01-0, pp. 80, euro 8,00) che in tal modo offre ai suoi lettori, soprattutto a quelli delle nuove generazioni, l'immagine di una Chiesa che sa stare accanto agli ultimi. Un'esigenza, questa, che per l'Autore è fondamentale quando, ad esempio, scrive: "Ho il desiderio ardente che la Chiesa si accorga dei poveri e per questo vorrei stare con essi, anche se la vita qui è dura, terribilmente dura, banale, monotona, triste, inutile. Alle volte ho il dubbio di star facendo qualcosa di assolutamente inutile, stupido e vorrei che qualcuno mi parlasse. Ma per questo non potrò avere che silenzio e ancora silenzio. Mi sento veramente solo".
Quelle del "Diario" di don Olivo Bolzon, ora parroco emerito di San Floriano, sono pagine che fanno riflettere, così come riconosce il sindaco di Castelfranco Veneto, Maria Gomierato, che nella presentazione al volume ha sottolineato come don Olivo abbia fatto una scelta difficile, quella di "andare e predicare il Vangelo a tutte le creature" che abitano nella terra lontano "dentro" l'uomo, e continua: "Nel terzo millennio infatti l'uomo, che vive straordinarie opportunità, rischia lo spaesamento, provato com'è da continue sollecitazioni a vivere il suo presente secondo le mode, i "last-minute", la competizione esasperata, l'apparire piuttosto che l'essere... Qui e ora c'è bisogno di testimonianze credibili, c'è bisogno di un libro come questo, dove don Olivo ci obbliga a fermarci un po', a riflettere, a porci di nuovo gli interrogativi più profondi, quelli che fanno emergere i valori che danno senso alla nostra esistenza, valori cristiani ma anche profondamente umani". (Carlo Silvano, carlo.silvano@poste.it)
Il volume è disponibile presso la libreria di Danilo Zanetti di Montebelluna, Libreria Costeniero di Castelfranco e presso ed. Tredieci di Ponzano Veneto (tel. 0422 440031; fax 0422 963835); altre informazioni si possono richiedere inviando una e mail a centrostudipaoli@libero.it.


Memoria di realtà intraviste
Storia di vita di un prete e sette senegalesi

E’ forse l’ultimo prete che ancora lavora, occupandosi sia della rilegatura che della riparazione di libri. Si chiama don Claudio Miglioranza e vive in una vecchia casa di contadini in un silenzioso e remoto angolo della campagna che circonda Castelfranco Veneto. Con lui abitano sette senegalesi di fede islamica: vivono insieme da anni ma di loro don Claudio sa ben poco.
La storia di don Claudio Miglioranza, una vita sacerdotale spesa soprattutto tra i poveri dell’America latina, è stata ora raccolta dalla giornalista Giulia Cananzi per essere pubblicata - insieme alle testimonianze di altri preti della diocesi di Treviso - nel libro curato da don Olivo Bolzon e Marisa Restello intitolato “Memorie di realtà intraviste” (Ogm editore 2008, pp. 112, euro 10.00).
Seguendo l’esempio di altri suoi compaesani, don Claudio entra in Seminario 1954. «Se mi giro indietro - racconta don Claudio - mi faccio tenerezza da solo perché mi vedo imbranato, senza infamia e senza lode. Non ho mai coltivato virtù eroiche ma neanche eccessiva trasgressività. Credo che la mediocrità mi abbia salvato dalla rigida disciplina del Seminario, dove si dava il voto anche sulla “diligenza” e sul “passeggio”. Al liceo non mi si chiarificava la vocazione. Mi spremevo nevroticamente il cervello e l’anima davanti al Santissimo: “Signore cosa vuoi da me?”. Ma niente. La risposta non mi è venuta da dentro, come io mi aspettavo, ma da fuori. Non è venuta per me ma per il mondo. È stata la mia rivoluzione copernicana. Uno shock, un’illuminazione. La Chiesa non era più solo Treviso ma era quella universale. Il grande Concilio Vaticano II mi ha investito come un fiume in piena. Non era più possibile amare Dio senza amare l’uomo».
Dopo gli studi presso il Seminario di Treviso, don Claudio passa al Seminario teologico per l’America Latina di Verona per poi, nel 1970, partire per l’Argentina.


«L’Argentina - riprende don Claudio - mi ha sconvolto la vita. Non era solo la povertà che ti provocava, era l’ingiustizia fatta sistema. Ho vissuto tutta la dittatura militare, fino a Videla. Ero andato a vivere in una villa miseria, una baraccopoli, dal nome ameno “Jardin”, cioè giardino. Non c’era solo povertà, c’era paura, incertezza, tensione. La guerriglia bruciava sotto la cenere, mentre le autorità vivevano con lo spettro del comunismo».
Nel 1976 don Claudio e tornato in Italia e a Castelfranco Veneto si è confrontato con un gruppo di preti che si incontrava ogni settimana per portare avanti un lavoro in comune. Un’esperienza molto forte. Dal 1978 don Claudio vive in affitto nella casa colonica: all’inizio insieme a giovani che avevano problemi con la droga, in seguito con i senegalesi. «Avevo il pallino dello scambio culturale - spiega don Claudio riferendosi alla sua scelta di ospitare dei lavoratori provenienti da un altro continente e appartenenti ad un’altra fede - ma loro avevano semplicemente bisogno di un tetto e di un lavoro. Io volevo parlare, loro per cultura stanno zitti. E poi c’è l’ostacolo enorme della lingua. La nostra convivenza si basa sul condividere le spese e sul vivere assieme. Da loro ho imparato che si può comunicare anche col silenzio».

La testimonianza di don Claudio raccolta nel volume “Memorie di realtà intraviste” è una chiara testimonianza di una scelta di vita intesa come dono. Dono ricevuto e a sua volta restituito, nella convinzione che non sono gli insegnamenti teorici né le prediche moralistiche a cambiare la società. Ed è una testimonianza importante soprattutto ora che è finito il tempo in cui si diventava cristiani per nascita: il problema oggi è che essere cristiano è frutto di una scelta che deve avvenire con dei percorsi consapevoli. La sfida è che l’evangelizzazione non sia un insegnamento illuministico, fatto di idee, ma che sia un radicamento sempre più profondo in Dio, nel Vangelo di Gesù Cristo e nel bene delle persone. E in questa direzione la testimonianza di vita di don Claudio rappresenta un prezioso sostegno.