lunedì 29 giugno 2009

Lettera Aperta al Cardinale Claudio Hummes

Prefetto della Congregazione per il Clero

don Olivo Bolzon

San Floriano, Pentecoste 2009

Caro Cardinale,

anche per me sono “le due di notte” come quelle del suo amico arcivescovo di Recife Helder Camara.

Caro fra’ Claudio,

tante cose ci accomunano e nessun incontro con Te è stato casuale. Ti ricordo a Castelfranco, quando sei venuto a raccontarci dello sciopero dei metalmeccanici dell’ABC. Il posto scelto da te nelle trattative era accanto al povero Lazzaro. Lo sentivi come tuo di fronte all’epulone del potere che ti voleva al suo fianco e si scandalizzava che tu stessi dall’altra parte.

Eminenza reverendissima, prefetto della congregazione del clero,

Ci siamo rivisti a Fortaleza e poi a San Paolo, ero accompagnato da una piccola suora di 86 anni che anche oggi dorme nelle tende dei Sem-Terra e con loro condivide tutto l’amore di quei poveri così capaci di amore per la Madre Terra.

E’ buona educazione, me l’ha insegnato mio padre, rispondere alle lettere che si ricevono. In questi giorni due ne ho lette da parte tua, indirizzate anche a me, e proprio a me perché sono sacerdote da 54 anni. Tu le hai firmate: cardinale Claudio Humes prefetto della congregazione del clero. Sono state pubblicate da “Avvenire” del 27 e del 29 maggio.

Veramente la prima si rivolge all’Eminenza/Eccellenza reverendissima/ A loro essa ricorda chi siamo noi sacerdoti.

“Come vostra eminenza/eccellenza potrà constatare....” E poi ancora li interpella

“Eminenza/Eccellenza non mancherà di porre in atto, in spirito di cordialità collegiale ogni opportuna iniziativa...”

La seconda è più breve e diretta a noi: Cari Sacerdoti...

Desidero ringraziarla e assicurarla che è proprio questa chiesa cattolica dell’anno 2009 che io amo e che ogni giorno mi arricchisce di sogni che tengono viva la Speranza e gioiosa l’attesa dell’Incontro. Lei scrive che l’anno sacerdotale che si apre il 19 giugno sia “un anno positivo e propositivo... Un anno di rinnovamento della spiritualità del presbiterio e dei singoli presbiteri”.

Sento di ravvivare la fiducia che Lei ha comunicato esprimendo quello che tanti anni di sacerdozio hanno suscitato riempiendomi di gratitudine e dialogando un po’ con lei in clima di serenità e nella sincerità della parresia le affido il senso che hanno per me le sue affermazioni: “Si tratta di un evento non spettacolare, ma che si vorrebbe fosse vissuto soprattutto come rinnovamento interiore, nella riscoperta gioiosa della propria identità, della fraternità del proprio presbiterio, del rapporto sacramentale con il proprio vescovo”.

Nei miei sogni coltivo la speranza che le prime sommarie indicazioni si facciano sempre più segni concreti, semplici,quotidiani, in modo da aiutarci non solo a una conversione personale, ma anche a una costante conversione delle strutture ecclesiastiche che rendono tante volte difficile l’evangelizzazione in questo nostro tempo.

“Le strutture di peccato” nel mondo e nella chiesa diventano impedimenti alla salvezza del mondo, Il vangelo di Marco ci invita non solo a diffondere la Parola, ma a renderla visibile nei segni che essa produce: “quelli che avranno fede, faranno segni miracolosi...”

Giovanni XXIII ci ha aiutato a vivere la nostra spiritualità nell’accogliere e nell’obbedire ai “Segni dei tempi”.

Noi preti siamo frastornati da istruzioni, convegni, proposte, assediati dagli impegni più vari e a volte più strani. Ho sempre presente come luce che illumina le mie scelte l’intervista del Cardinale Ratzinger nel Regno-Attualità 4 del 1994. Ci aiuta a superare il pericolo di quei documenti che si moltiplicano, che pochi leggono e che sviano dall’essenziale. Trascrivo le sue parole per la loro attualità: “Quanto alla sua riflessione su Dio, mi sembra innegabile che esista un po’ troppa auto-occupazione della chiesa con se stessa. Essa parla troppo di sé, mentre dovrebbe di più e meglio occuparsi del comune problema:trovare Dio e trovando Dio trovare l’uomo.

Ciò che manca oggi non sono prima di tutto le nuove formule, ma si è piuttosto obbligati a constatare un’inflazione di parole che non hanno copertura di risorse auree.

Mi sembra tutt’ora innegabile una produzione eccessiva di documenti. Se la situazione della chiesa dipendesse dalla quantità di parole, avremmo oggi una fioritura ecclesiale mai vista... Sarebbe invece necessario darsi un tempo di silenzio, di meditazione e di incontro con il reale, per maturare un linguaggio più fresco nato da un’esperienza profonda e viva più capace dunque di trovare il cuore degli altri”

Non si potrebbe descrivere meglio e dare più importanti indicazioni per inoltrarci nel cammino di questo anno sacerdotale. E i segni mi sembrano attraenti e concreti.

Noi sacerdoti dobbiamo farci carico dei nostri vescovi. Anche loro sono sacerdoti e hanno bisogno di condividere con noi il cammino di libertà dei figli di Dio. Mi fa ancora sorridere un’assemblea di preti della mia diocesi in cui dialogavano il nostro vescovo e il cardinale Poupard. Sembrava una sfida di fioretto tanto era l’intensità nel tener alto il ruolo: Eminenza, diceva il Vescovo, Eccellenza riprendeva il Cardinale. Gesù diceva semplicemente “vi ho chiamati amici”. Nel quarto volume della”Storia del Concilio Vaticano Secondo” Alberigo riporta la proposta di un vescovo di abolire questi titoli. Ma non se ne è fatto niente. Si dirà che queste sono delle stupidaggini, ma come mai allora non riusciamo ad eliminarle?

Ancor più i nostri vescovi successori degli Apostoli devono essere aiutati a liberarsi di tanti inutili pesi. Il vescovo Helder Camara suggeriva a Paolo VI di lasciare il vaticano, licenziare la sua corte e vivere con maggiore semplicità più vicino agli uomini e alle donne.

I nostri palazzi vescovili sono onerosi monumenti che creano distanze e favoriscono rapporti più formali che personali. Potrebbero eliminare gli obblighi di rappresentanza che li sottomettono a una visibilità stressante come inaugurare asili, benedire banche, essere maestri tuttologi nei convegni e nei seminari. Sono persone umane e li rispettiamo nella misura in cui li aiutiamo ad esserlo nella quotidianità. Leggiamo negli Atti degli Apostoli: (6,2-4)

Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: <>.

Sarebbe bello che non avessero più alcuna responsabilità economica e a laici competenti fosse trasferito il necessario impegno e la piena responsabilità della gestione economica della chiesa locale. Un’aria nuova di libertà soffierebbe anche nei parroci, obbligati a prendersi per legge il peso di funzionamento delle opere parrocchiali: canoniche, asilo chiese ecc.

Potrebbe essere profetico questo anno sacerdotale nel senso di creare segni di comunione che rinnovano la nostra vita di presbiteri. Penso per esempio all’attrattiva del celibato che non ha nessuna parentela con la moda dei singles.

Da anni vivo con Marisa, non la serva del prete, ma un’amica ricevuta come dono gratuito. Portando la sua dote di femminilità e la sua esperienza educativa, mi aiuta ogni giorno di più a crescere nella reciprocità e a vivere nella grazia dell’amicizia, Così il nostro vivere diventa ricco di umanità ed aperto all’accoglienza di tutti. E’ un segno evangelico che ci porta a camminare insieme con il gruppo famiglie, a condividere con chi cerca il senso della propria vita e della fede, dal Marocchino che riprende a sperare in Allah e a frequentare la moschea, a Razia che ogni anno viene

dal Pakistan dove, unica donna nella sua diocesi, si occupa della liberazione delle donne. E’ la lettura popolare della Bibbia come l’abbiamo imparata nelle comunità di base del Brasile che ci occupa sia nei centri di ascolto parrocchiali, sia nel gruppo a livello diocesano del Segretariato di Attività Ecumeniche (SAE). E’ la porta aperta a tanta gente che ci aiuta a cercare insieme la Presenza del Consolatore in una umanità sempre più sofferente. Ho imparato così a vivere l’attrattiva del celibato, a non vederlo come problema, ma a riconoscerlo come attrattiva e forza di comunione. Certamente fa parte della spiritualità del prete e di tutta la chiesa e mi sembra che nella chiesa, in modo sereno e trasparente vada affrontato anche perché è grande risorsa ad accogliere quel segno dei tempi che la Pacem in Terris indica nell’umanità di oggi cioè la dignità della donna. E’ necessario nella chiesa il superamento concreto del maschilismo che tra l’altro blocca la persona del prete.

La nostra spiritualità domanda una crescita di comunione vera con tutti e con tutte, un cammino di umanizzazione da vivere sempre più incarnati in questa società.

Le diocesi si muovono verso forme organizzative nuove. Stanno emergendo soluzioni come le unità pastorali. E’ delicata ogni soluzione. Una riforma per razionalizzare e rendere l’azienda chiesa più efficace e concorrenziale della società laica, può risultare illusoria se non dannosa. Vivere la Parola incarnata è segno di salvezza e produce segni concreti e visibili. “Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato... questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono nel mio nome” (Mc 24,14-18) Decidere e pianificare dall’alto senza coinvolgere tutta la chiesa, fare progetti fidando negli esperti e calandoli sulla base non è automaticamente segno di vita.

Gesù le dice: ”Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre.Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”.(Gv 4,21-24)

Se noi preti non cresciamo camminando insieme con la gente “fratelli tra i fratelli” (VAT.II P.O). Se usi e costumi del nostro vivere non sono chiaramente alternativi alla cultura normale, tutte le nostre esortazioni diventano luoghi comuni. Le comunità che subiscono le nostre decisioni diventano interessate solo all’efficienza dei nostri servizi. Penso alla nomina dei parroci, alla nomina dei vescovi cui resta totalmente estranea la comunità. Per rinnovare la nostra spiritualità di preti diocesani, c’è bisogno di cambiamenti strutturali profondi, che favoriscono rapporti nuovi di fraternità semplice, vera e trasparente. C’è bisogno che le parole diventino fatti, che la fede ispiri ricerche comunitarie che coinvolgono tutto il popolo di Dio non come consumatore, ma come produttore. Il cardinale che è diventato Papa avverte che “la chiesa è comunione di persone che per l’azione dello Spirito formano il popolo di Dio che è al tempo stesso popolo di Cristo.

Chi identifica Chiesa e gerarchia e chi riduce il popolo di Dio a un’idea sociologica contraddice la parola e lo spirito del Vaticano Secondo”. (Benedetto XVI in Avvenire 29 maggio 2009 p.18).

Permettimi un’ultima citazione che ci aiuta a rendere attraente e importante la nostra professione di preti e riempie di senso la nostra quotidianità. Diceva Papa Benedetto XVI nell’udienza di mercoledì 27 maggio: “Per Teodoro Studita una virtù importante al pari dell’obbedienza e dell’umiltà è la philergia cioè l’amore al lavoro in cui egli vede un criterio per saggiare la qualità della devozione personale: colui che è fervente negli impegni materiali, che lavora con assiduità, lo è anche in quelli spirituali”

Ho tentato di affidarti tante speranze e condividere la tua responsabilità soprattutto nel tuo lavoro per noi preti di cui ti ringrazio.

Se per caso passi nei nostri territori o hai voglia di respirare un po’ d’aria diversa da quella della città eterna, nel nostro Veneto e in casa mia l’ospitalità è sempre un dono grande che riceviamo.

Buon lavoro e cordiali saluti

Don Olivo Bolzon
Prete in pensione

L’Italia è un paese razzista?


di Gad Lerner

dal“Venerdì” di “Repubblica”. del 26 giugno 2009

Domanda: l’Italia è un paese razzista?

Risposta: sì.

Parte il coro di proteste: ma va là, sono generalizzazioni inaccettabili! I veri razzisti siete voi, privilegiati e snob, che ce l’avete con il popolo. Neanche ve lo immaginate cosa significhi vivere nel casermone di periferia con certi brutti ceffi, e magari il campo rom lì accanto alla fermata dell’autobus.

Se poi allo stadio parte il coro “non ci sono negri italiani”, subito arriva il commissario tecnico della Nazionale pronto a spiegare: suvvia, trattasi di quattro imbecilli, non confondiamo il razzismo con l’ignoranza che c’è sempre stata e sempre ci sarà.

La collezione dei “singoli” episodi, detti anche “casi isolati”, in cui una persona viene insultata, aggredita, discriminata per via della sua appartenenza etnico-religiosa o anche solo per il colore della sua pelle è ormai normalità quotidiana che difficilmente fa notizia. Quando è proprio inevitabile darne conto sui giornali, l’increscioso fatto di cronaca viene ascritto alla voce “esasperazione”: se la gente diventa razzista è perché non ce la fa più a sopportare. Reagisce all’ipocrisia di chi vorrebbe nascondere l’evidenza, cioè la propensione maggiore degli stranieri a commettere reati. Un sociologo come Luca Ricolfi scrive editoriali sul tasso di “pericolosità” degli immigrati confrontato con quello della popolazione italiana. Ma non è razzista, sia ben chiaro. Al contrario, è coraggioso perché sfida la censura del “Politically correct”.

Poi ci sono i pignoli. Ti spiegano che non bisogna parlare di razzismo ma semmai di xenofobia, cioè di ostilità allo straniero. Grazie della precisazione davvero essenziale. Ci mettiamo l’animo in pace perché il razzismo italiano contemporaneo non incorpora più –se non in settori marginali- le teorie del razzismo biologico otto-novecentesco secondo cui esisterebbero popoli superiori e popoli inferiori. Per intenderci, ora non si dice più che i negri sono selvaggi, gli ebrei subdoli e gli ariani invece nobili. Ci si mette a posto la coscienza precisando: apparteniamo tutti alla medesima razza umana; ma è meglio che quelli lì, anche per il loro bene, se ne stiano (tornino) a casa loro.

Vanno per la maggiore in tv e sui giornali i propagandisti della differenza. Amanti del parlare chiaro, loro sì vicini al popolo che incontrano al mercato e sulla metropolitana (mentre si sa che gli antirazzisti mandano il filippino a fare la spesa e viaggiano su limousines con l’autista). Se i romeni stuprano noi lo scriviamo, va bene? Se gli zingari rubano perché dovremmo nasconderlo? E se i musulmani ci odiano perché far finta di non vedere?

Così si alimenta e si legittima il circuito del nuovo razzismo italiano. Licenza di gridare il risentimento generalizzato contro intere comunità. Comprensione per chi trasferisce in gesti individuali o azioni organizzate tale ostilità. Lodi ai politici che promettono riforme in senso discriminatorio del diritto.

A questo punto viene il bello. Perché di fronte alle denunce e alle proteste di coloro che vengono irrisi come “buonisti” (anche la bontà in questo paese è diventata una parolaccia) si leva l’accusa: ma come, non vi rendete conto che parlando a sproposito di razzismo voi non fate altro che favorirne la diffusione? Placatevi. Minimizzate come noi. Lasciate perdere le sparate “paradossali” di sindaci, ministri, deputati europei –sotto elezioni anche del presidente del Consiglio schierato, udite, udite, contro la società multietnica- e pazienza se sono un po’ troppo “colorite”. Non cadete nella trappola, lasciate che i capipopolo diano voce alla “pancia” del popolo.

Perché? Perché altrimenti sarete voi (saremo noi) a far crescere il razzismo in questo paese che prima ne era immune. Un po’ come dire che se gli ebrei non si fossero allargati troppo, in Germania, quell’Hitler lì mica ce l’avrebbe fatta…

Il prossimo 6 luglio deporrò come parte lesa di fronte all’ottava sezione del Tribunale di Milano, dove è stato rinviato a giudizio per diffamazione aggravata da istigazione all’odio razziale un redattore di “Radio Padania Libera”. Un tale che minacciava me, “nasone”, di “venirmi a prendere in sinagoga per il collo, e non in senso figurato” perché colpevole di avere paragonato gli ebrei a “quella banda di ladri dei rom”.

Ebbene, sul “Foglio” mi hanno accusato di vigliaccheria perché dall’alto del mio potere ho querelato un povero megafono di malumori popolari. Già, perché io sarei il privilegiato, l’ammanicato, l’amico dei banchieri (mica male come replica del più classico stereotipo antisemita); e con il mio comportamento arrogante ho anch’io favorito l’ascesa al potere delle camicie verdi.

Non avevo bisogno di questa conferma per riconoscere il grado di assuefazione cui siamo pervenuti, con l’aggravante dell’inconsapevolezza.

L’Italia è un paese razzista? Sì.

lunedì 1 giugno 2009

Una riflessione su recenti fatti di cronaca nazionale

(Lettera a Settimana, periodico italiano di attualità pastorale – 26 maggio 2009)

E’ con crescente disagio che mi accingo a scrivere queste righe ad un periodico ecclesiale-culturale a cui sono fedelmente abbonato da molti anni. E’ il disagio del cittadino e del sacerdote, disgustato dalle risonanze mediatiche che recentemente hanno negativamente coinvolto il premier del nostro paese soprattutto per due episodi scandalosi: 1°- il teste inglese Mills è stato condannato in prima istanza da un tribunale italiano perché corrotto con 600.000 dollari dal presidente del Consiglio Berlusconi, protetto in questo caso dal “Lodo Alfano” e quindi personalmente non incriminabile; 2° – alcuni quotidiani indicano lo stesso presidente come persona implicata in un’oscura vicenda con ragazzine minorenni! Il disagio certamente è legato al coinvolgimento della figura istituzionale del premier in queste tristissime vicende private di cui, purtroppo, molto difficilmente si saprà la verità in un contesto italiano dove lo stesso premier, direttamente o indirettamente, risulta essere il padrone incontrastato dell’80% dell’informazione nazionale.

Però, il disagio maggiore nasce soprattutto dalla ricaduta etica e culturale sul nostro “disgraziato” paese. Un paese che, magari dopo una curiosità occasionale ed emotiva sugli episodi citati, rimuove tutto come niente fosse, pervaso da una diffusa cultura amorale e opportunistica che lo porta sempre ad inseguire nuove emozioni morbose, a salire sul carro del più forte e a giustificare comunque ogni suo comportamento individuale, anche se disdicevole. Il DNA antropologico appare profondamente mutato nel giro degli ultimi anni e sembra essersi saldamente installato nelle “viscere e nella pancia” di una parte consistente d’italiani, diventati estremamente recettivi al “ciarpame politico” e al fenomeno del cosiddetto “velinismo”, dentro un costume di massa e con un’opinione pubblica sempre più addomesticata e distratta.

Gli insulti viscerali contro il padre della povera Eluana Englaro di qualche mese fa e il recente flusso di folle di giovanotti palestrati a Torino per i provini TV in vista della trasmissione
“Grande Fratello 2010”, i proclami politici e la stampa di regime, la solidarietà e l’immigrazione, la chiesa stessa e la crisi economica, lo sport e il divertimento: sono elementi quotidiani del vivere nazionale che vengono prodotti e abilmente manipolati per sedurre le masse desiderose solo di “panem et circenses” e per parlare all’enorme “pancia” del paese. Una pancia, come un ectoplasma amorfo e ingordo, che tutto inghiotte e tutto metabolizza dentro un circuito perverso d’insipienza collettiva. E il popolo suddito, cloroformizzato e inebetito da una TV sempre più trash e sempre più urlata dove ciò che conta è l’audience, applaude tutto giulivo per le prodezze e le “sparate” del capo, facendo lievitare alle stelle i sondaggi e il consenso.

Le chiese italiane, nel mese di maggio, tradizionalmente si riempiono di fedeli per le celebrazioni delle prime comunioni e delle cresime, del rosario in onore della Madonna e delle processioni patronali, ecc. Eppure, questa gente devota e semplice, generalmente pigra culturalmente e digiuna d’informazione obiettiva, se non è puntualmente e accortamente allertata dai propri pastori, difficilmente percepirà la deriva valoriale in cui tutti stiamo inesorabilmente precipitando. Da questo punto di vista si registra uno scoramento frustrante in tanti cristiani e in tanti preti di fronte ad un degrado che, come un dirompente tsunami morale e culturale, sembra aver travolto e disperso l’immenso patrimonio del cattolicesimo sociale italiano e del Concilio stesso.


don Giorgio Morlin
Mogliano Veneto (Tv)