venerdì 27 febbraio 2009

Questa Chiesa diventerà una setta


Intervista ad Hans Kung

TUBINGA 

Alto e magro, con il volto glabro e il ciuffo ribelle, Hans Küng, considerato il massimo teologo cattolico dissidente vivente, riceve nel suo studio di Tubinga dai muri tappezzati di libri, dove i suoi - tradotti in tutte le lingue - occupano il posto d’onore.     

Professore, come giudica la decisione del Papa di togliere la scomunica ai quattro vescovi integralisti di monsignor Lefebvre, uno dei quali, Richard Williamson, è un negazionista?     
«Non ne sono rimasto sorpreso. Già nel 1977, in una intervista a un giornale italiano, Monsignor Lefebvre diceva che “alcuni cardinali sostengono il mio corso” e che “il nuovo cardinal Ratzinger ha promesso di intervenire presso il Papa per trovare una soluzione”. Questo dimostra che la questione non è né un problema nuovo né una sorpresa. Benedetto XVI ha sempre parlato molto con queste persone. Oggi toglie loro la scomunica, perché ritiene che sia il momento giusto per farlo. Ha pensato di poter trovare una formula per reintegrare gli scismatici i quali, pur conservando le loro convinzioni personali, avrebbero potuto dare l’impressione di essere d’accordo con il concilio Vaticano II. Si è proprio sbagliato».     

Come spiega il fatto che il Papa non abbia misurato la dimensione della protesta che la sua decisione avrebbe suscitato, anche al di là dei discorsi negazionisti di Richard Williamson?     
«La revoca delle scomuniche non è stato un errore di comunicazione o di tattica, ma un errore del governo del Vaticano. Anche se il Papa non era a conoscenza dei discorsi negazionisti di monsignor Williamson e lui personalmente non è antisemita, tutti sanno che quei quattro vescovi lo sono. In questa faccenda il problema fondamentale è l’opposizione al Vaticano II, in particolare il rifiuto di un rapporto nuovo con l’ebraismo. Un Papa tedesco avrebbe dovuto considerare centrale questo punto e mostrarsi senza ambiguità nei confronti dell’Olocausto. Invece non ha valutato bene il pericolo. Contrariamente alla cancelliera Merkel, che ha prontamente reagito. Benedetto XVI è sempre vissuto in un ambiente ecclesiastico. Ha viaggiato molto poco. E’ sempre rimasto chiuso in Vaticano - che è assai simile al Cremlino d’un tempo -, dove è al riparo dalle critiche. All’improvviso, non è stato capace di capire l’impatto nel mondo di una decisione del genere. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che potrebbe essere un contropotere, era un suo subordinato alla Congregazione per la dottrina della fede; è un uomo di dottrina, completamente sottomesso a Benedetto XVI. Ci troviamo di fronte a un problema di struttura. Non c’è nessun elemento democratico in questo sistema, nessuna correzione. Il Papa è stato eletto dai conservatori e oggi è lui che nomina i conservatori».  

In che misura si può dire che il Papa è ancora fedele agli insegnamenti del Vaticano II?  
«A modo suo è fedele al Concilio. Insiste sempre, come Giovanni Paolo II, sulla continuità con la “tradizione”. Per lui questa tradizione risale al periodo medioevale ed ellenistico. Soprattutto non vuole ammettere che il Vaticano II ha provocato una rottura, ad esempio sul riconoscimento della libertà religiosa, combattuta da tutti i papi vissuti prima del Concilio». L’idea di fondo di Benedetto XVI è che il Concilio vada accolto, ma anche interpretato: forse non al modo dei lefebvriani, ma in ogni caso nel rispetto della tradizione e in modo restrittivo. Per esempio è sempre stato critico sulla liturgia. E ha una posizione ambigua sui testi del Concilio, perché non si trova a suo agio con la modernità e la riforma, mentre il Vaticano II ha rappresentato l’integrazione nella Chiesa cattolica del paradigma della riforma e della modernità. Monsignor Lefebvre non l’ha mai accettato, e nemmeno i suoi amici in Curia. Sotto questo aspetto Benedetto XVI ha una certa simpatia per monsignor Lefebvre. D’altra parte trovo scandaloso che, per i 50 anni dal lancio del Concilio da parte di Giovanni XXIV, nel gennaio 1959, il Papa non abbia fatto l’elogio del suo predecessore, ma abbia scelto di togliere la scomunica a persone che si erano opposte a questo concilio».  

Che Chiesa lascerà questo Papa ai suoi successori?  
«Penso che difenda l’idea del “piccolo gregge”. È un po’ la linea degli integralisti: pochi fedeli e una Chiesa elitaria, formata da “veri” cattolici. È un’illusione pensare che si possa continuare così, senza preti né vocazioni. Questa evoluzione è chiaramente una restaurazione, che si manifesta nella liturgia, ma anche in atti e gesti, come dire ai protestanti che la Chiesa cattolica è l’unica vera Chiesa».  

La Chiesa cattolica è in pericolo?  
«La Chiesa rischia di diventare una setta. Molti cattolici non si aspettano più niente da questo Papa. È molto doloroso».  

Lei ha scritto: «Com’è possibile che un teorico dotato, amabile e aperto come Joseph Ratzinger abbia potuto cambiare fino a questo punto e diventare il Grande Inquisitore romano?». Allora, com’è possibile?  
«Penso che lo choc dei movimenti di protesta del 1968 abbia resuscitato il suo passato. Ratzinger era un conservatore. Durante il Concilio si è aperto, anche se era già scettico. Con il ‘68, è tornato a posizioni molto conservatrici, che ha mantenuto fino a oggi».  

Lei pensa che possa ancora correggere questa evoluzione?  
«Quando mi ha ricevuto, nel 2005, ha fatto un atto coraggioso e io ho veramente creduto che avrebbe trovato la via per le riforme, anche se lente. In quattro anni, invece, ha dimostrato il contrario. Oggi mi chiedo se sia capace di fare qualcosa di coraggioso. Tanto per cominciare, dovrebbe riconoscere che la Chiesa cattolica attraversa una crisi profonda. Poi potrebbe fare un gesto verso i divorziati e dire che, a certe condizioni, possono essere ammessi alla comunione. Potrebbe correggere l’enciclica Humanae vitae, che nel 1968 ha condannato tutte le forme di contraccezione, dicendo che in certi casi l’uso della pillola è possibile. Potrebbe correggere la sua teologia, che data dal Concilio di Nizza (325). Potrebbe dire: “Abolisco la legge del celibato”. È molto più potente del Presidente degli Stati Uniti! Non deve rendere conto a una Corte Suprema! Potrebbe anche convocare un nuovo Concilio».  

Un Vaticano III?  
«Permetterebbe di regolare alcune questioni rimaste in sospeso, come il celibato dei preti e la limitazione delle nascite. Si dovrebbe prevedere un modo nuovo per eleggere i vescovi, che contempli il coinvolgimento anche del popolo. L’attuale crisi ha suscitato un movimento di resistenza. Molti fedeli si rifiutano di tornare al vecchio sistema. Anche alcuni vescovi sono stati costretti a criticare la politica del Vaticano. La gerarchia non può ignorarlo».  

La sua riabilitazione potrebbe far parte di questi gesti forti?  
«In ogni caso sarebbe un gesto ben più facile del reintegro degli scismatici! Ma non credo che lo farà, perché Benedetto XVI si sente più vicino agli integralisti che alle persone come me, che hanno lavorato al Concilio e l’hanno accettato». Copyright Le Monde.  Un addio amaro e rabbioso, immortalato dai fotografi. Il vescovo negazionista Richard Williamson ha lasciato l’Argentina, diretto verso Londra, nel peggiore dei modi. All’aeroporto di Buenos Aires, inseguito dai fotoreporter, Williamson ha perso il controllo e si è scagliato con il pugno chiuso verso uno di loro. Lo scatto ha fatto subito il giro del mondo. Si chiude così un capitolo della vicenda che ha messo in imbarazzo il Vaticano. Williamson, che aveva scatenato una bufera per aver negato l’Olocausto in un’intervista rilasciata poco prima della revoca della scomunica per lui e altri tre vescovi lefebvriani, era stato espulso il 19 febbraio dal governo di Buenos Aires, che gli aveva dato 10 giorni di tempo per lasciare il Paese. L’espulsione era stata motivata con il fatto che il vescovo aveva nascosto il vero motivo della sua permanenza nel Paese, dal momento che si è dichiarato un impiegato amministrativo dell’associazione civile «La Tradicion» quando, in realtà, dirigeva il seminario lefebvriano della Fraternità di San Pio X a Buenos Aires. Un incarico da cui Williamson era stato rimosso il 9 febbraio scorso.   La Stampa 25.02.09

Su ronde e immigrati il governo sta sbagliando


Intervista su Metropoli in edicola domenica all'ex ministro dell'Interno Giuseppe Pisanu

"L'equazione straniero-criminale è un'infamia 
I medici non denunceranno, ma agiranno secondo coscienza"
di VLADIMIRO POLCHI

ROMA - "Basta con le "grida" manzoniane". Giuseppe Pisanu (Pdl) presidente dell'Antimafia ed ex ministro dell'Interno, è un politico di lungo corso, abituato a parlare fuori dal coro. "L'immigrazione va governata con umanità e intelligenza politica - avverte - perché l'Italia avrà ancora bisogno di 300mila immigrati all'anno". Per questo, alcune scelte dell'attuale governo non lo convincono e lo spiega nel corso di una lunga intervista rilasciata a Metropoli (in edicola domenica prossima). Le ronde? "Un vulnus all'efficienza del nostro sistema di sicurezza". La tassa sui permessi di soggiorno? "Fonte di risentimento e rancore". Il reato d'immigrazione clandestina? "Inutile". 

Presidente, dal mondo cattolico si levano voci critiche contro le politiche migratorie del governo. 
"Vedo una certa confusione di idee e propositi. Una cosa è il contrasto all'immigrazione clandestina, altra cosa ben più importante è il governo complessivo dei flussi migratori. L'immigrazione clandestina, infatti, è la patologia del fenomeno e va combattuta, mentre l'immigrazione è un processo vitale per il futuro del nostro Paese e va governata con umanità e intelligenza politica". 

La delinquenza romena è un problema e finisce sempre più spesso in prima pagina. Cosa fare per evitare il diffondersi dell'equazione immigrato-criminale? 
"La criminalità romena si fronteggia con una prevenzione oculata e con una repressione energica, basata soprattutto sulla severità e la certezza della pena. La prevenzione deve procedere sul doppio binario degli accordi bilaterali con la Romania e dell'inserimento degli immigrati nel nostro tessuto economico e sociale. 
L'equazione immigrato-delinquente è una infamia. Però è vero che l'immigrazione clandestina è fonte di illegalità e di comportamenti criminali, che devono essere stroncati all'origine. Penso comunque che lo strumento più efficace per combattere l'immigrazione clandestina sia il governo sapiente dell'immigrazione regolare". 

E' giusto far sì che i medici possano denunciare gli irregolari che ricorrono alle cure? 
"No. Se la norma venisse applicata indiscriminatamente si creerebbero problemi serissimi alla salute pubblica e al sistema sanitario nazionale. Ma io sono sicuro che i medici italiani rimetteranno le cose a posto operando, come sempre, secondo scienza e coscienza". 

Il reato d'immigrazione clandestina sarà un valido deterrente ai flussi migratori? 
"Temo di no, perché la fame, la disperazione e anche la speranza che spingono tanti migranti non conoscono ostacoli". 

Che senso ha prevedere un ulteriore contributo sul rinnovo dei permessi di soggiorno, che già attualmente costa oltre 72 euro? 
"Mi chiedo anch'io che senso abbia, per un governo come questo, tassare con cattiveria proprio i più poveri e i più indifesi. Se si tratta di una misura di dissuasione, si rivelerà ben presto velleitaria e temo che servirà solo a far crescere risentimento e rancore. Attenzione, perché la collera degli immigrati sta montando e ci sono gruppi estremisti pronti a cavalcarla". 

La Lega Nord chiede una moratoria sui flussi d'ingresso degli extracomunitari per due anni. Non crede che il sistema Italia abbia ancora bisogno di manodopera immigrata? 
"La recessione in atto giustifica, almeno in parte, la moratoria, ma non cambia i termini del problema. Perché se vogliamo mantenere invariato il numero degli italiani in età lavorativa per i prossimi venti anni, avremo bisogno mediamente di 300mila immigrati all'anno. Piaccia o no, la prosperità futura del nostro Paese dipenderà dalla sua capacità di attrarre forza-lavoro dall'estero e di integrarla in maniera adeguata. Su questa base dobbiamo ridefinire i nostri obiettivi di sviluppo, sicurezza e coesione sociale, dandoci così una politica per l'immigrazione in linea con le esigenze del Paese per i prossimi decenni. Altro che misure di dissuasione e "grida" manzoniane!". 

La macchina delle espulsioni è lenta e costosa. In quest'ottica è utile aumentare il numero dei Cie e portare da 2 a 6 mesi il tempo massimo di trattenimento? 
"Cie o non Cie, mese più mese meno, i meccanismi di espulsione si inceppano in tutti i Paesi democratici che rispettano i diritti dell'uomo e le Convenzioni Internazionali. La soluzione del problema è altrove, in una politica di governo complessivo delle migrazioni". 

La Lega Nord ha chiesto al ministero dell'Istruzione che venga posto un tetto del 20% alla presenza di alunni stranieri per classe. Cosa ne pensa? 
"Il ministro Gelmini ha impostato correttamente il problema, scongiurando i rischi di discriminazione e xenofobia". 

Si fa sempre più strada un'idea di giustizia fai da te. Dopo i militari in città, arrivano le ronde di volontari. Come le giudica? 
"Dovrebbero essere gruppi di volontariato, ma spesso si presentano come milizie di partito. Oggettivamente costituiscono un vulnus all'unitarietà e all'efficienza del nostro sistema di sicurezza. Questo sistema, infatti, è basato su un unico codice penale, su un unico codice di procedura penale e su un'unica autorità nazionale di pubblica sicurezza rappresentata dal ministro dell'Interno, il quale opera attraverso i vertici delle forze di polizia ed i prefetti. Quando si trasferiscono competenze e funzioni anche minori dai prefetti ai sindaci, dalle forze dell'ordine a soggetti privati, si attenta, che lo si voglia o no, all'unità del sistema e si gettano le basi di ulteriori confusioni e disordine. Naturalmente il sistema non è immutabile, ma se si vuole decentrarlo o disaggregarlo bisogna procedere apertamente con misure organiche e costituzionalmente corrette". 
(27 febbraio 2009)

giovedì 19 febbraio 2009

Il grande sfascio del partito ombra

Marco Cedolin    http://ilcorrosivo.blogspot.com/

Le dimissioni di Walter Veltroni che dopo 16 mesi abbandona la guida del PD, all’indomani della cocente sconfitta nelle elezioni regionali in Sardegna, rappresentano per molti versi il terminale inevitabile di una pessima operazione di “marketing politico”, iniziata con l’ormai famoso discorso d’investitura tenuto al Lingotto di Torino e naufragata mese dopo mese, elezione dopo elezione, fino ai disastrosi risultati che sono ormai sotto agli occhi di tutti.

Il totale sfascio di un progetto politico come quello del PD si presta naturalmente a molte chiavi di lettura e per forza di cose non può essere attribuito unicamente alla leadership di Veltroni, così come alla notoria propensione ad accapigliarsi fra loro manifestata dalle molteplici correnti del partito. Senza dubbio Veltroni non ha mai dato l’impressione di avere il carisma e l’autorità necessaria per guidare una formazione politica scarsamente omogenea e perennemente in balia delle lotte di potere, ma l’intera “operazione PD” è parsa fin da subito una scommessa persa, nata con tutta probabilità proprio al fine di creare i presupposti della sconfitta.

Il PD fin dal momento delle primarie farsa, create per eleggere un segretario già eletto da tempo, è sempre stato un partito ombra. Un partito impegnato a scimmiottare ora Berlusconi, ora il modello americano, totalmente incapace di assumere delle posizioni politiche alternative rispetto a quelle del proprio avversario. Un partito con la velleità di essere vicino ai lavoratori, ma anche a Confindustria, amico dell’ambiente ma anche dei cementificatori, difensore dei giudici ma anche di chi attacca i giudici, preoccupato per gli italiani che non arrivano a fine mese ma anche per gli interessi di chi costruisce profitto sulle loro spalle, favorevole alla pace ma anche alle missioni di guerra. Tutto ed il contrario di tutto, all’interno di un minestrone proposto sulle note orecchiabili di “Yes we can” e totalmente privo di contenuti, appiattito sugli intoccabili dogmi del neoliberismo, arrancando sul terreno di Berlusconi per ritrovarsi, come un’ombra, sempre un metro indietro rispetto al proprio avversario.

Dopo le elezioni e la sconfitta elettorale il PD ha continuato la propria parabola discendente anche all’interno del Parlamento, manifestandosi completamente incapace di abbozzare una qualche forma di opposizione e finendo per calarsi ogni giorno di più nel ruolo di partito ombra della maggioranza, funzionale a validare le scelte, spesso scellerate, portate avanti dall’esecutivo. Mai durante quasi un anno il partito di Veltroni è stato pervaso da un qualche moto di orgoglio, mai è riuscito a trovare argomenti per contrastare l’azione del governo che prescindessero dalla sterile diatriba di facciata, mai ha tentato di farsi interprete del profondo malessere che attraversa larga parte dell’opinione pubblica. Perfino Antonio Di Pietro, la posizione del cui partito è da sempre allineata con gli interessi dei poteri forti, grazie all’ombra esercitata dal PD, ha trovato il modo di emergere in parlamento come l’unico partito di opposizione, dal momento che anche qualche svogliato mugugno finisce per sembrare un urlo qualora proferito nel silenzio più assoluto.

Proprio il silenzio, carico di condiscendenza, e l’incapacità di fare opposizione nei confronti di un governo con il quale condivide larga parte del proprio programma, hanno determinato la continua emorragia di consensi che ha portato il PD alle dimissioni del suo segretario pochi mesi prima dell’appuntamento con le elezioni europee ed amministrative. Elezioni che con tutta probabilità vedranno il consenso del PD in caduta libera, dimostrando il totale fallimento di un’operazione di marketing politico che ha generato una “creatura” incapace sia di governare che di fare opposizione e pertanto assolutamente priva di qualsiasi utilità.

Berlusconi naturalmente ringrazia e dopo il successo regalatogli da Romano Prodi si appresta a raccogliere anche l’omaggio di Walter, a vincere facile dopo un po’ ci si prende gusto.

Raccontare l’emergenza democratica. In Tempo.

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di 
Giulietto Chiesa

«Governa l’Italia un pirata, re d’affari: ateo come tutti i caimani, veste livrea clericale; da trent’anni spaccia oppio televisivo e aborre l’intelligenza, ma non sbaglia un colpo nei calcoli del tornaconto; sostenuto dai preti, occuperà i rimasugli dello Stato; perciò voleva scardinare la res judicata imponendo il nutrimento coatto con norme penali decretate d’urgenza. Dal Quirinale arriva un avviso: l’eventuale decreto non sarebbe pubblicato; e lui minaccia rendiconti plebiscitari.
Ventiquattr’ore dopo insulta il padre d’E.E. spiegando a milioni di italiani che vuol disfarsi della figlia scomoda (l’aveva già detto un monsignore); la proclama idonea a gravidanza e parto; farfuglia torvo d’una Carta da riscrivere; vuol legiferare da solo, mediante decreti, in una corte dei miracoli tra asini che dicono sì muovendo la testa»
Franco Cordero«La Repubblica», Sabato 14 Febbraio 2009

Un anno fa, quando un manipolo di giornalisti e intellettuali si riunì a Roma per lanciare l’idea di Pandora TV, parlammo di “emergenza democratica”.
Indicammo la Costituzione come il più probabile bersaglio dell’offensiva rivoluzionaria del Padrone di questo paese.
Le cose avvengono in fretta, più velocemente di quanto molti si sarebbero aspettati. Purtroppo avevamo ragione.
Ma il Padrone non si combatte con appelli. Di appelli ci siamo stufati, specie di quelli che vengono promossi da coloro che hanno legittimato il Padrone mentre diventava tale.
Il Padrone si combatte solo sul terreno dove ha vinto e dove continua a vincere: sull’informazione e sulla comunicazione. Prima che l’Italia, come dice Cordero, si trasformi in una corte di asini consenzienti. Ancora non lo è, per nostra fortuna e speranza.
fonte: Megachip

Lefebvriani Unità della Chiesa: sì, ma a quale prezzo?

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di Giancarlo Zizola

Nel conclave del 2005 la candidatura di Ratzinger si impose non solo per la stima universale di cui godeva la sua intelligenza teologica, ma anche perché era considerato l’uomo giusto per mettere sotto controllo i nuclei del lefebvrismo e l’ala più oltranzista della curia romana che lo appoggiava dietro le quinte. Nessuno come lui aveva la possibilità di riuscire là dove Wojtyla aveva fallito, cioè di chiudere lo scisma di Lefebvre e di sgombrare il campo dall’altra divisione storica, quella dello “scisma cinese” della Chiesa patriottica. Su questo programma concordavano anche, a certe condizioni, i cardinali dell’ala riformista, convinti che senza disciplina, non si potrebbe dare riforma. In quanto tedesco, Benedetto XVI apporta di suo a questa esigenza obiettiva di riconciliazione una speciale sensibilità per l’effetto durevole di uno scisma come quello luterano. Certamente egli è lontano dal ritenere che basti un decreto per medicare le ferite ed evitare danni ancora più gravi di quelli che esso pretenderebbe di sanare. Ricomporre formalmente le rotture non è sufficiente infatti ad assorbirle nei fatti: nell’equivoco sono caduti anche quegli adepti dello scisma che hanno interpretato l’atto di clemenza come un avallo della imperterrita verità della loro posizione antagonista.

La delicatezza di questa mossa, attesa da tempo, è tutta in una domanda: unità della Chiesa, sì, ma a quale prezzo? I Papi del post-concilio, Paolo VI e Giovanni Paolo II si erano incagliati su questo problema. Nel dar prova di pazienza smisurata con Marcel Lefebvre essi avevano dovuto riconoscere che la pace non avrebbe avuto altra contropartita che il Concilio stesso. Temevano che la stessa “riconciliazione liturgica”, il primo obiettivo dei lefebvristi, avrebbe avuto un esito destabilizzante per l’intero magistero conciliare. Lefebvre trattava pubblicamente Montini come “un papa scismatico” e considerava il Vaticano II come una deviazione dal cammino della vera Tradizione della Chiesa. Il suo rifiuto mirava al cuore delle reali discontinuità operate dal Concilio nel suo approccio vivificante ad una Tradizione dinamica: la dottrina della libertà religiosa, il dialogo con le altre religioni, il rifiuto dell’antisemitismo e del mito del “deicidio”. Da “padre conciliare” Lefebvre nel 1964 era un avversario così irriducibile del progetto di dichiarazione sugli Ebrei da costringere Paolo VI a rimuoverlo dalla speciale commissione mista incaricata di elaborarla per un voto che sarebbe stato quasi plebiscitario dell’assemblea.

Il vero ostacolo alla chiusura dello scisma era dunque costituito dal prolungato rifiuto dei dissidenti di accettare l’autorità del Concilio Vaticano II. Questa condizione è stata ribadita con la necessaria chiarezza anche da Benedetto XVI il 28 gennaio, successivamente da una Nota della Segreteria di Stato. Un conto è abrogare le pene canoniche inflitte con la scomunica ai quattro vescovi scismatici; altra cosa incardinarli come vescovi nella comunione della Chiesa universale, nella quale il pluralismo, se ammette espressioni diverse, ha naturalmente dei limiti. Il papa ha gettato un ponte, ma lo scisma non si potrà chiudere se i ribelli non lo percorrono, dichiarando di accettare senza riserve l’intera ortodossia cattolica, di cui anche le decisioni del Vaticano II fanno parte integrante.

La nuova bufera che ha funestato il regno di Ratzinger ha portato di nuovo allo scoperto che il sistema delle comunicazioni al vertice del Vaticano è vittima di corti circuiti troppo frequenti per essere incidentali. Quando una nota ufficiale ammette che il papa “non sapeva” che uno dei vescovi lefebvristi assolti aveva suscitato uno scandalo internazionale con le sue dichiarazioni televisive negatrici della Shoah forse mette al riparo la buona fede di Ratzinger ma confessa il disfunzionamento della squadra dei suoi collaboratori che dovrebbero per dovere di stato tirarlo fuori dalla solitudine del suo tabernacolo teologico e consentirgli di mettere i piedi per terra, sulla storia reale del mondo. In realtà, dopo questo ennesimo infortunio, non necessita di altre dimostrazioni l’evidenza che il sistema della monarchia assoluta del pontefice non può reggersi sulla spalle di un uomo solo e che il passaggio ad un governo collegiale con la partecipazione di rappresentanti dell’episcopato mondiale costituisce una riforma indispensabile, già autorizzata certo dal Concilio ma caparbiamente boicottata dalla curia centrale.

 In secondo luogo, si può osservare che la revoca dello scisma è coincisa con segnali univoci di una rimonta in Vaticano dell’ala conservativa della Chiesa, culminata con la nomina di un lefebvrista dichiarato, il cardinale spagnolo Antonio Canizares, a prefetto della Congregazione del Culto Divino. In coincidenza con il decreto di revoca l’Osservatore Romano del 25 gennaio, precisamente nella data in cui ricorreva il 50° anniversario dell’annuncio del Concilio da parte di Giovanni XXIII, liquidava il valore permanente del Vaticano II affermando che questo Concilio “va storicizzato, non mitizzato”. Da più di trentacinque anni, cioè in pratica da quando la ribellione di Lefebvre ha svolto il suo potere di ricatto sulle riforme della Chiesa, – un potere molto superiore alle trascurabili proporzioni numeriche dello scisma – i papi erano informati che i burattinai che tiravano i fili della rivolta erano a Roma. Lo stesso antipapa Marcello me lo aveva dichiarato apertamente in una intervista a Il Giorno (2 luglio 1977): “vari cardinali in Vaticano – disse – sostengono la mia posizione”. Alludendo al concistoro in cui, il 27 giugno, l’arcivescovo di Monaco aveva ricevuto la porpora, Lefebvre aggiunse che “il nuovo cardinale Ratzinger si augura di poter intervenire presso il papa per favorire una soluzione”.

Il chiarimento pontificio sul Concilio Vaticano II come parte integrante della Tradizione della Chiesa, da accettare per chiudere effettivamente lo scisma, ha permesso di evitare che la pace coi lefebvristi si trasformasse in una vittoria su tutta la linea del gruppo duro della curia da gran tempo interessato a contenere l’impulso riformatore entro una lettura minimalista del Concilio e a contestarne la natura vincolante. Se lo scisma ha le sue radici a Roma, diventa più chiara la ragione per cui il processo della revoca sia stato trattato in modo così sollecito e pacifista e con una comprensione tale “della sofferenza spirituale” degli scismatici da trascurare i danni e lo scandalo che ne sarebbero derivati per la fede della gran parte dei cattolici. In verità Roma puntava ad assolvere anche se stessa per le responsabilità che le spettano storicamente nelle origini e nell’intrattenimento di uno scisma rivelatosi così “utile” a mettere sotto scacco le riforme e lo stesso significato permanente del Vaticano II…

Le dichiarazioni ufficiali hanno infine cercato di limitare i danni, escludendo il significato anti-conciliare che la revoca aveva rivestito. Tuttavia il conflitto sull’autorità del Concilio a Roma è ben lontano dall’essere circoscritto. Le opinioni al riguardo restano così divise da far pensare che la Chiesa romana sia come l’Arca di Noé: c’è posto per ogni genere di animali, anche bestie feroci. Dato però che si proclama ufficialmente che il cattolicesimo non può essere vissuto astraendo dal riferimento al Vaticano II qualsiasi posizione ermeneutica, che ne esplori la continuità con il magistero precedente, non potrà spingersi d’ora in poi a sottovalutarne le conquiste innovative o a accusarne le discontinuità come “misinterpretazioni” dei testi che il Concilio ha votato. Ciò finirebbe per aprire il Portone di Bronzo al vento letale del relativismo e mettere a repentaglio in definitiva la stessa autorità pontificia, all’insegna dell’aforisma della curia romana: “Un papa bolla, e un altro sbolla”.


lunedì 16 febbraio 2009

Compleanno di don Fernando Pavanello



Dalla rete per salvare gli ebrei alla teologia della liberazione alla prima associazione per aiutare gli handicappati: storia di un uomo che non si è mai arreso

Don Pavanello, il guerrigliero di Dio


Compie 90 anni il «padre» dei volontari trevigiani: «Non morirò arrabbiato»

di Andrea Passerini

La casa è a Breda, a fianco della chiesa. Piccole stanze, piene di segni. Il crocifisso brasiliano scolpito nel legno (rubato) da un ragazzo di strada, ricordo del lungo le­game con dom Camara. Colombe della pa­ce. Un poster di Don Milani: «Fai strada ai poveri senza farti strada». E decine di dedi­che fraterne dai mille amici. Monsignor Pavanello vive con un «diario vivente» del suo servizio, in cui ha seminato volonta­riato e impegno. Domani compie 90 anni. C'è chi, fra i giovani preti, deve a lui la sua vocazione. E moltissimi obiettori, ope­ratori sociali, «folgorati» dal contatto con la sua testimonianza. Da mezzo secolo è un riferimento. Pioniere, in particolare, per l'handicap e le coop sociali, realtà in cui Treviso è (non a caso) all'avanguardia.

Monsignor Pavanello, 90 anni condotti sulla frontie­ra della solidarietà. Del «farsi prossimo» lei è un manifesto vivente.

«La fede deve affrontare le situazioni concrete dell'uo­mo, n samaritano è in viaggio per affari, non parte da casa sapendo cosa avrebbe fatto per strada, n Concilio Vatica­no parla di segni dei tempi che la Chiesa deve interpreta­re. E il primo segno è sempre l'uomo. L'amore di Dio mi fa amare l'uomo, è il primo co­mandamento. Più di tutti co­lui che soffre e ha bisogno».

Come nasce, questa voca­zione nella vocazione?

«Da giovane vedevo le don­ne venete contadine, schiaviz­zate dagli uomini. I paroni li­beri di prendersi ogni licenza con le serve, i fioi dea ser­va. . .Poi la guerra: soldati reni­tenti, partigiani, molti con una rete clandestina che li portava in Svizzera. Per un cristiano è sempre inaccetta­bile vedere l'uomo umiliato perché debole».

Anche lei, come altri esponenti di una Chiesa più «sociale», è stato a lun­go in Sudamerica.

«Realtà terribile e bellissi­ma. L'umanità è sfruttata da multinazionali, latifondisti, poteri totalitari. Ma c'è anche una Chiesa che per la prima volta ha compiuto una rivolu­zione partendo dalle comunità di base».

La teologia della libera­zione sconfessata però dal Vaticano.

«Di fronte a quella situazio­ne, la chiesa brasiliana ha vis­suto la fede come liberazione dell'uomo. Forse qualche pre­te si è buttato a capofitto nel­l'impegno per il riscatto socia­le, mettendo in secondo piano Dio. Ma il messaggio che arri­va da quei paesi era, è, e sarà sempre straordinario».

Quante volte l'hanno ac­cusata di «comunismo»?

«Ho sempre risposto: mai avuto bisogno di Marx, ho il Vangelo. La mia non è mai stata una fede facile, vengo da buona famiglia, agiata, papà e zio anticlericali. Una volta in Cile, era il 1964, ho vi­sto contadini scalzi, in fila dal latifondista che regalava il pane, e gli baciavano le ma­ni. Quella non è carità, quel pane è dovuto per giustizia so­ciale. E qui dico che la Chiesa dovrebbe andare oltre certe dichiarazioni belle di princi­pio e gridare. Ci siamo fatti espropriare, i profeti hanno sempre gridato contro chi abusa del debole».

Ma il pericolo di essere strumentalizzati o associa­ti a una parte politica?

«Mai avuto problemi, con comunisti o con non credenti. Papa Giovanni diceva di non chiedere mai a nessuno da do­ve venga, ma casomai dove vada. E se la tua strada è la sua, cammina insieme a lui senza paura. Se fai del bene, alla fine c'è anche il premio più bello, il Paradiso...».

Non sembrano più tempi per queste aperture. La Chiesa riaccoglie chi nega il Concilio Vaticano II.

«Ho speranza, ci sono segni positivi che non escono fuori. Nella Chiesa, come nella sto­ria, le minoranze lavorano e soffrono. C'è bisogno di salva­re l'uomo dalla banalizzazio­ne, da questa paura del diver­so, dalla mancanza di apertu­ra. Penso a noi veneti, alla paura atavica del foresto, ca­valcata dalla Lega. E a questa smania per la roba, l'affanno per i soldi, l'ingordigia: nien­te di peggio del povero arric­chito. E il consumismo, male­detto: quand'era vescovo, Woytila disse a un convegno che faceva più danni dell'atei­smo di Stato perché svuota l'uomo. Vedo cravatte a 150 euro in vetrina, il culto della griffe, pubblicità oscene: ecco lo scandalo di oggi».

Ha citato la Lega. Qui a Treviso, in passato, voci della Chiesa si sono levate, anche in modo forte. Oggi?

«Noi preti di questo territo­rio dovremmo farci un esame di coscienza. Quale atteggia­mento abbiamo tenuto? Parte del mondo cattolico si è rela­zionata con la Lega, anche con scambi e piccoli favori».

Lei da 40 anni è attivissi­mo sul fronte dei disabili. Quando ha cominciato, nel 1972, non esisteva nemme­no questo termine, erano gli handicappati.

«E' stata un'altra situazio­ne. Privata, familiare. Mio ni­pote Luca è nato down. Allo­ra nelle famiglie scattava la colpa, la coscienza di una sor­ta di castigo di Dio, la vergo­gna, la rassegnazione. Un pic­colo gruppo di persone sensi­bili, credenti e non, si è attiva­to, abbiamo creato l'associa­zione delle famiglie: ci aiuta­rono il sindacato, e un De sen­sibile come Armellin. Abbia­mo girato, bussato alle porte. Ma non in un'ottica caritati­va, no. n secondo passaggio dev'essere sociale, nella ci-vis: chi non ha diritti deve prendere coscienza, diventa­re soggetto politico in senso alto e chiedere alla democra­zia di rimuovere l'emargina­zione, la diseguaglianza, di da­re opportunità. Oggi abbiamo creato 5 case: lavorano, fanno le ferie, si integrano».

Quanti problemi ha avu­to nella Chiesa per le sue posizioni?

«No, sono stato sempre mol­to rispettato, talvolta temuto. In altre fasi, mi sono sentito un po' ai margini: ma non pos­so lamentarmi. Anzi, per cer­ti versi ho avuto successo».

Come vive una Chiesa che sulla famiglia fa parla­re politici divorziati?

«Non mi stupisco che i poli­tici strumentalizzino, sor­prende che la Chiesa li lasci fare senza intervenire».

E la vicenda dolorosissima di Eluana?

«Penso ai 250 mila casi Eluana in tutt'Italia, mi dico che tutto questo dovrebbe far riflettere e portare a una leg­ge con 4 regole che orientino i cittadini in un'eventuale scel­ta. E' scandaloso che tutta questa passione, da una parte e dall'altra, non faccia scatta­re gesti di solidarietà ogni giorno. Verso chi è solo, a Na­tale e a Pasqua, chi ha biso­gno di amicizia, chi è tentato dal suicidio o è disperato».

Nel suo libretto affronta anche il tema della solitudi­ne dei preti e del celibato.

«No a una Chiesa asettica che parla dall'alto: cosa san­no della tentazione? La profe­zia chiede preti liberi, senza coinvolgimenti, ma è giusto che chi voglia sposarsi lo pos­sa fare. La Chiesa dovrebbe aprire, fosse stato eletto Mar­tini... no, lasciamo perdere».

Ha fiducia nel futuro?

«Non muoio da arrabbiato, ma con la consapevolezza che i tempi, per vedere la giusti­zia, siano lunghi, molto lun­ghi. Troppa sofferenza, anche qui e ora. Persino 24 ore di in­giustizia e sofferenza sono troppe. La Chiesa, mai così potente, ha un'occasione for­midabile, non deve cedere al­la pigrizia, alla comodità».

Un messaggio di com­pleanno, per i suoi 90 anni.

«Mai lavarsi la coscienza dando 1 euro al povero. Ma chiedersi cosa posso fare io, nel mio piccolo, perché non ci sia più povertà, e mettersi in gioco. Ribellandosi alla stupi­dità, al falso, al convenziona­le. Serve passione per la ve­rità e l'autenticità. La perso­na era la maschera del teatro, il personaggio. Bisogna anda­re dentro, fino all'anima, sa­pendo che costa fatica».

La Tribuna di Treviso 15.02.09

domenica 15 febbraio 2009

venerdì 13 febbraio 2009

Firma online la petizione tedesca contro la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani

«Per il riconoscimento incondizionato delle risoluzioni del Concilio Vaticano II»

 La revoca pontificia della scomunica dei vescovi della Fraternità tradizionalista S. Pio X, resa nota il 24 gennaio 2009, ha per i sottoscritti il significato della riammissione di persone che si sono riconosciute e ancora si riconoscono apertamente avversari delle riforme avviate con il Concilio Vaticano II.

Di fronte alle esternazioni antisemite e alla negazione dello sterminio nazista degli ebrei da parte del vescovo Richard Williamson e dei suoi seguaci condividiamo l’indignazione delle nostre sorelle e dei nostri fratelli di fede ebraica. Prendiamo inoltre atto del fatto che l’atteggiamento della Fraternità S. Pio X nei confronti dell’ebraismo, nella sua globalità, non corrisponde alle esigenze avanzate dal Concilio relativamente al dialogo ebraico-cristiano. Accogliamo con soddisfazione le dichiarazioni in questo senso della Conferenza Episcopale Tedesca e del Zentralkomitee der Deutschen Katholiken [«Comitato centrale dei cattolici tedeschi»], così come le chiare prese di posizione della Conferenza Episcopale Francese e di altri vescovi.

I sottoscritti ritengono essere un segnale non casuale il fatto che papa Benedetto XVI abbia compiuto questa revoca in diretta prossimità temporale – con tutto il suo simbolismo – con il cinquantesimo anniversario dell’annuncio della convocazione del Concilio Vaticano II da parte di papa Giovanni XXIII. Questo passo indietro fa temere che alcuni settori della Chiesa cattolica si chiudano a riccio su posizioni di rifiuto completo di ogni modernità. Un passo indietro con cui si consente a questi settori della Chiesa cattolica romana – accanto a molti altri – di rifiutare apertamente lo spirito e la lettera di significativi documenti del Concilio Vaticano II, come il decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio, la dichiarazione sulle religioni non cristiane Nostra Aetate, la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae e la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes. Attualmente non è possibile prevedere l’entità delle gravi conseguenze di questa decisione per la credibilità della Chiesa cattolica romana. Ma con ogni probabilità il prezzo da pagare sarà molto alto.

Con tutto il rispetto verso gli sforzi del papa tesi all’unità della Chiesa, ci sembra particolarmente scandaloso che il nuovo riavvicinamento del Vaticano a questo movimento tradizionalista e scismatico sia avvenuto, con tutta evidenza, senza formulare alcuna precondizione. Ancora nel giugno 2008, in occasione del ventesimo anniversario della scomunica di Lefebvre, la fraternità sacerdotale rifiutò l’esortazione della Santa Sede alla riconciliazione teologica e politico-ecclesiale, non ottemperando all’invito di Roma a sottoscrivere una dichiarazione in cinque punti con le condizioni per una possibile reintegrazione nella Chiesa romana.

Il ritorno alla piena comunione con la Chiesa cattolica può essere possibile soltanto se le risoluzioni del Concilio Vaticano II verranno riconosciute incondizionatamente, con le parole e con i fatti, come pretende anche il motu proprio Summorum Pontificum sul rito tridentino.

Finché il Vaticano si sforzerà solamente di riportare all’ovile le «pecorelle smarrite» dei settori tradizionalisti della Chiesa, senza rimuovere anche altre scomuniche, senza rivedere gli interventi nei confronti di teologhe e di teologi riformatori e senza essere disponibile al dialogo con tutte le aree che nel mondo si impegnano per la riforma, la barca della Chiesa cattolica romana non potrà che subire pesanti sbandamenti.

Essen, 28 gennaio 2009

 Prof. Dr. Norbert Scholl, Angelhofweg 24b, 69259 Wilhelmsfeld ed altre decine di primi firmatari di teologi e cattolici di base

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Una linea diversa sul caso Englaro

Mons. Casale: «Io dico che Eluana ha finito di soffrire»

di Roberto Monteforte

Escludo che per Eluana si possa parlare di omicidio. Rifiuto questa lettura perché, come molti altri, ritengo che quando c'è la dichiarazione di volontà di rifiutare l'accanimento terapeutico, si rifiuta un intervento tecnico e si lascia che la natura faccia il suo corso. Come si può parlare in questo caso di eutanasia in questo caso?» È lineare il ragionamento di monsignor Giuseppe Casale, vescovo emerito di Foggia. Con serenità ribadisce il suo punto di vista sul caso Englaro. Un punto di vista molto diverso da quello di altre voci anche autorevoli della Chiesa, per le quali non vi sarebbe dubbio, quello di Eluana è stato omicidio, eutanasia.

 

Eppure nella Chiesa c'è chi si dice sicuro che la sospensione di alimentazione e idratazione sia eutanasia..

«Molti medici ritengono che l'idratazione e l'alimentazione forzata siano un medicamento. Non si tratta di un dar da magiare o da bere, ma di nutrire medicalmente con un sondino, con una miscela o altro che servono a tenere il corpo in vita. È alimentazione articificiale. Se uno la rifiuta, lasciando che la propria vita vada avanti secondo quello che è il pensiero di Dio, la sua volontà e la natura, allora quello che rifiuta è l'accanimento terapeuetico. Nel caso in cui non ci siano più prospettive o possibilità di una vita nuova, perchè ormai la lunga degenza esclude questa ipotesi, si tratta di affidarsi al corso della natura. Non è assolutamente eutanasia. Affermarlo è forzare le cose. È dare seguito ad interpretazioni politiche esasperate e unilaterali, forzate con questo vizio d'origine. Ci rifacciamo tanto alla natura e alle sue leggi e in questo caso ritieniamo che le sue leggi debbano essere violate? Diciamo che ci vogliono gli interventi tecnologici o biotecnici?».

 

Eppure la polemica monta nel paese. Non le pare che ci sia il rischio di una lacerazione profonda nella società?

«Dobbiamo lavorare perché si crei una nuova mentalità. Davanti alla morte di questa giovane creatura dobbiamo essere indotti a riflettere. A liberarci dai pregiudizi e dagli interessi di parte. Se dovessi dire il mio pensiero chiederi al Signore di tenermi in vita finché è possibile. Mi affiderei alla sua bontà. Aspettando che mi chiami. Non rinuncerei a seguire le cure che i medici mi consigliano, ma non vorrei trovarmi nella condizione di essere affidato a delle tecniche che prolungano artificiosamente la vita. Vorrei viverla ricca almeno di un rapporto con gli altri. Ho assistito molti ammalati terminali. Sino al momento in cui vi è possibilità di comunicazione con lo sguardo, con un canto, con un tocco della mano allora sì che c'è una comunicazione, che c'è la vita. Ma non è questo il caso che stiamo esaminando...».

 

Il mondo cattolico protesta vivacemente...

«C'è stata tutta questa mobilitazione. Io che sono uomo libero rifiuto di farmi mobilitare».

 

Lei è una voce fuori dal coro...

«No. Sono nel coro che è la Chiesa cattolica. Sarò forse un solista. E i solisti mettono in evidenza alcuni aspetti della partitura. In questo coro io ho voluto mettere in evidenza un'aspetto: quello della libertà della persona, quello della vita che è vita quando è fatta di relazioni, quello del rispetto della volontà anche quando non è espressa con un atto formale, come è stato per questa giovane donna che lunedì sera ha concluso il suo cammino. Rifiuto qualsiasi forma di "intruppamento", di mobilitazione, di crociata. Perché le crociate hanno lasciato brutti segni nella storia della Chiesa».

 

Come costruire il "dopo Eluana"?

«Evitando di cadere nel tranello dei marpioni della politica sempre pronti a tirare l'acqua al loro mulino. Non è giusto usare strumentalmente un caso così drammatico per fini che non sono neanche politici, ma di rivincita di un gruppo sull'altro. Dobbiamo avere la dignità di uno sguardo nuovo della politica che rispetti le persone, che vada nella direzione della "polis", la città al cui servizio noi siamo».

 

Come arrivare ad una legge sul testamente biologico che aiuti a definire il "fine vita"?

«Attraverso un confronto che rispetti le etiche diverse e la libertà delle opinioni. In un regime democratico la libertà va costruita nel rispetto reciproco e nell'accoglienza delle varie esperienze. Soprattutto nel rispetto delle persone che soffrono. E non credo che Bettino Englaro abbia fatto quello che ha fatto senza passare attraverso una grossa sofferenza. Abbiamo il dovere di rispettarlo e lui ha il diritto al nostro rispetto e alla nostra amicizia».

dall’ Unità, 11 febbraio 2009

 

 

“Rispetto il papà: ha voluto provocare le coscienze”

intervista a Mons. Giancarlo Maria Bregantini a cura di Giacomo Galeazzi

in “La Stampa” dell'11 febbraio 2009

 

«Sono vicino a Peppino Englaro che invece di ricorrere a sotterfugi è sempre stato corretto e ha creduto nella giustizia. Bisogna apprezzare la sua rettitudine». L’arcivescovo Giancarlo Maria Bregantini, 60 anni, trentino, commissario Cei del Clero e della vita consacrata, per tre lustri presule anti-clan a Locri e due anni fa promosso alla guida dell’arcidiocesi di Campobasso, tende la mano al papà di Eluana che, invece, secondo Avvenire «si è fatto giudice e boia».

 

Peppino Englaro «boia», come attacca il giornale della Cei?

«Ora è proprio il caso di abbassare i toni e riflettere con maggiore pacatezza ed equilibrio. E senza dimenticare mai che la misericordia è la nota dominante che permea tutto il Vangelo. Come credenti dobbiamo stringerci attorno alla famiglia Englaro che per 17 anni ha sofferto un atroce calvario e ora sperimenta il dolore più lancinante. Sul piano soggettivo e a livello personale, dobbiamo tutti comprendere una situazione altamente dolorosa che si è conclusa in modo triste. Io avrei preferito che Eluana fosse affidata sempre più alle suore e continuare a starle vicino accompagnando questo padre così provato e meritevole di profondo rispetto».

 

Qual è il merito del papà di Eluana?

«Peppino Englaro è stato grande nell’aver voluto una soluzione legale senza mai cercare scorciatoie sotto banco. Personalmente non avrei trasferito Eluana a Udine, ma non pronuncerò mai condanne contro la famiglia Englaro né farò campagne. Va rispettato il dolore personale, soggettivo di un padre che si è fidato della giustizia ed è stato esemplare nel rifuggire dai sotterfugi. Di tanti casi simili a quello di Eluana non si è mai saputo nulla perché si sono fatte le cose di nascosto. Al contrario, Peppino Englaro, con la sua rettitudine, ha voluto provocare le nostre coscienze, perciò merita rispetto sul piano personale e della modalità d’azione. Ci ha posto di fronte ad un macigno sul quale bisogna riflettere».

 

Oltreché contro Peppino Englaro, le associazioni cattoliche puntano l’indice contro Napolitano per la mancata firma sul decreto «salva-Eluana». E’ d’accordo?

«No. Il Capo dello Stato aveva motivazioni certamente fondate per non firmare. Era la sentenza dei giudici a non essere accettabile per la morale cattolica, non certo la mancata firma del presidente Napolitano. Piuttosto il Parlamento poteva essere più lungimirante e assumersi prima il compito di legiferare sul fine vita e non pretendere di risolvere tutto in poche ore. Adesso bisogna cogliere la provocazione positiva di Peppino Englaro. Ha anche chiesto la benedizione di Eluana, che va accolta con grande misericordia tra le braccia della Chiesa. Avremmo dovuto camminare più insieme alla famiglia Englaro, accompagnarla di più in questi anni. Eluana potrebbe essere la nostra mamma, la nostra sorella, una persona a noi cara. Non dobbiamo lasciare sola la famiglia Englaro».

L’ETÀ DELLA RESTAURAZIONE

di Hans Küng

Il presidente Barack Obama è riuscito in poco tempo a tirar fuori gli Stati Uniti da un clima di abbattimento e da una congestione di riforme, presentando una visione credibile di speranza e introducendo un cambiamento strategico nella politica nazionale e estera di questo grande Paese.

Nella Chiesa cattolica le cose stanno in modo diverso. Il clima è oppressivo, la montagna di riforme paralizzante. Dopo i suoi quasi quattro anni di pontificato molti vedono papa Benedetto XVI come un altro George W. Bush. Non è una coincidenza che il papa abbia celebrato il suo 81.mo compleanno alla Casa Bianca. Sia Bush che Ratzinger sono assolutamente impermeabili in materia di controllo delle nascite e aborto, non orientati a compiere alcuna seria riforma, arroganti e non trasparenti nel modo in cui esercitano il loro incarico, limitando le libertà e i diritti umani.

Come Bush a suo tempo, anche papa Benedetto sta soffrendo una sempre maggiore mancanza di fiducia. Molti cattolici non si aspettano più nulla da lui. Peggio ancora, con la revoca della scomunica di quattro vescovi tradizionalisti consacrati illegalmente, tra cui uno che notoriamente nega l'Olocausto, Ratzinger ha confermato tutte le paure venute a galla quando è stato eletto papa. Il papa favorisce persone che ancora rifiutano la libertà di religione affermata dal Vaticano II, il dialogo con le altre Chiese, la riconciliazione con l'ebraismo, un'alta stima dell'islam e delle altre religioni del mondo e la riforma della liturgia.

 

Allo scopo di far progredire la "riconciliazione" con un esiguo numero di tradizionalisti ultrareazionari, il papa rischia di perdere la fiducia di milioni di cattolici in tutto il mondo che continuano ad essere fedeli al Vaticano II. Il fatto che sia un papa tedesco a fare questi passi falsi acuisce i conflitti. Le scuse a posteriori non possono rimettere insieme i pezzi.

Nell’adottare un eventuale cambiamento di percorso, il papa avrebbe lavoro più facile di quello del presidente degli Stati Uniti. Non ha il Congresso alle spalle come organismo legislativo né una Corte suprema come organismo giudiziario. È il capo assoluto del governo, legislatore e giudice supremo nella Chiesa. Se volesse, potrebbe autorizzare la contraccezione dalla sera alla mattina, potrebbe permettere ai preti di sposarsi e alle donne di essere ordinate prete e anche la comunione eucaristica con le Chiese protestanti. Che cosa farebbe un papa che agisse nello spirito di Obama? Chiaramente, come Obama egli potrebbe:

1. affermare con chiarezza che la Chiesa cattolica si trova in profonda crisi e identificare il cuore del problema: molte assemblee di fedeli senza preti, un numero insufficienti di nuovi candidati al sacerdozio, un collasso strisciante di strutture pastorali in conseguenza di impopolari fusioni di parrocchie, collasso che si è sviluppato lungo secoli;

2. proclamare la visione di speranza di una Chiesa rinnovata, di un ecumenismo rivitalizzato, della comprensione con ebrei, musulmani e altre religioni del mondo, ed una valutazione positiva della scienza moderna;

3. riunire intorno a sé i colleghi più competenti - non yesmen, ma menti indipendenti - supportate da esperti qualificati e privi di timori;

4. dare il via immediatamente ai più importanti provvedimenti di riforma tramite un decreto ('ordine esecutivo') e

5. convocare un concilio ecumenico per promuovere il cambiamento di percorso.

Ma che deprimente contrasto!

Mentre il presidente Obama, appoggiato da tutto il mondo, guarda avanti ed è aperto alla gente e al futuro, questo papa si sta orientando più che altro all'indietro, ispirato dall'ideale della Chiesa medievale, scettico sulla Riforma, ambiguo sui moderni diritti alla libertà.

Mentre il presidente Obama si preoccupa di stabilire una nuova cooperazione con partner e alleati, papa Benedetto XVI, come George W. Bush, è intrappolato nel suo pensare in termini di amici e nemici. Snobba i cristiani delle Chiese protestanti rifiutando di riconoscere queste comunità come Chiese. Il dialogo con i musulmani non è andato oltre un riconoscimento del "dialogo" a parole. Le relazioni con l'ebraismo, bisogna dirlo, sono state profondamente danneggiate.

Mentre il presidente Obama irradia speranza, promuove attività civili e fa appello ad una nuova "era di responsabilità", papa Benedetto è imprigionato nelle sue paure e vuole limitare per quanto possibile la libertà umana, allo scopo di inaugurare una "età della restaurazione".

Mentre il presidente Obama va all'offensiva usando la Costituzione e la grande tradizione del suo Paese come fondamento per coraggiose riforme, papa Benedetto interpreta i decreti del Concilio di Riforma del 1962 nella direzione contraria, all'indietro, guardando al Concilio conservatore del 1870.

Ma poiché con ogni probabilità papa Benedetto XVI non sarà mai un Obama, per l'immediato futuro abbiamo bisogno:

I. di un episcopato che non nasconda i problemi manifesti della Chiesa ma ne parli apertamente e li affronti con energia a livello diocesano;

II. di teologi che collaborino attivamente per una visione al futuro della nostra Chiesa e non abbiano paura di dire e di scrivere la verità;

III. di pastori che si oppongano ai pesi eccessivi costantemente imposti dalla fusione di tante parrocchie e che con coraggio assumano le loro responsabilità pastorali;

IV.  in particolare di donne, senza le quali in molti luoghi le parrocchie collasserebbero, che sfruttino fiduciosamente le possibilità della loro influenza.

Possiamo farlo davvero? Yes, we can.

da 
la Repubblica" del 7 febbraio 2009

LA CROCIATA LEFEBVRIANA

di don Olivo Bolzon

Ho apprezzato molto la vostra puntuale informazione e ri­flessione sul grave proble­ma del vescovo e del prete lefebvriani. Ho anche senti­to piena adesione alle pun­tualizzazioni del nostro ve­scovo, del vicario generale e del delegato diocesano dell'Ecumenismo sulla questione. Vorrei aggiunge­re un mio «perché» a questa improvvisa posizione nega­zionista in questo momento.

La situazione mondiale sta conoscendo un decisivo decli­no delle dottrine di Bush, la sua divisione fra stati buoni e stati canaglie, la sua dottri­na sulla guerra permanente come unica difesa al terrori­smo.

La grande crisi segna nuo­ve speranze, l'assoluto dell'e­conomia non salva, i potenti non sono più in grado di da­re speranza di vita. Ed è in questa realtà che nasce il mio perché, perché i lefebvriani rientrano nella chiesa, che avevano tanto criticato e poi abbandonato.

La misericordia di Benedet­to XVI che toglie la scomuni­ca è certo un fatto determi­nante per l'azione pastorale della chiesa. Ma i lefebvriani ritornano per una vera con­versione al cammino concilia­re o per una crociata anti-conciliare dall'interno della chie­sa?

La loro nascita è il rifiuto del Concilio, qualcosa di to­talmente negativo. Il loro fon­datore è morto rifiutando ogni serio rapporto con la chiesa di Roma e anzi sfidan­dola in maniera aperta con la consacrazione di quattro vescovi. La pazienza di Roma ha premiato alcune loro atte­se: la Messa preconciliare in latino, ora la rimozione della scomunica, il continuo ascol­to per una riconciliazione.

Ma che significato ha que­sto cammino per le nostre chiese diocesane, per il nostro popolo. Perché queste dichia­razioni negazioniste? Non so­no forse un triste tentativo di svuotare il Concilio, non più dall'esterno, ma dall'interno della chiesa?

Il popolo ebraico ridiventa il popolo deicida, non c'è asso­lutamente possibilità di dialo­go con le altre religioni: solo totale condanna. «La dichia­razione sulle relazioni della chiesa cattolica con le religio­ni non cristiane» fondata sul dialogo che riconosce in tutte le religioni i semi del Verbo, il decreto «Unitatis Redintegratio» che parla di conver­sione delle chiese per testimo­niare l'unità del genere uma­no nel servizio della loro evangelizzazione comune non sono stati sempre obietti­vi dichiaratamente avversati dalla Fraternità di Lefebvre?

La dichiarazione sulla li­bertà religiosa «Dignitatis Humanae» è stata sempre l'o­biettivo del loro fondamenta­le disaccordo con la chiesa di Roma (si possono consultare i discorsi e le azioni di Lefe­bvre nei cinque volumi di Al­berigo sulla storia del Conci­lio Vaticano Secondo).

Non saranno questi dei ballons d'essai, delle avvisaglie dei loro disegni e della loro volontà di vanificare il Conci­lio dall'interno? Sono doman­de che mi sento di proporre all'attenzione delle nostre chiese soprattutto in questo parti­colare momento in cui anche l'ideologia del libero merca­to, come quella del marxi­smo, ha mostrato il suo dise­gno di divisione e di morte per la nostra umanità.

Queste frange religiose non rischiano di essere a servizio dei potenti e dei loro disegni di distruzione e di morte?

Don Olivo Bolzon San Floriano di Castelfranco

da La Tribuna di Treviso, 3 febbraio 2009