martedì 27 settembre 2011

Aspettando le elezioni nel Deserto dei Tartari


Ilvo Diamanti

ANCHE IERI si è ripetuto il logoro copione che si recita in Italia, da oltre un anno e forse più. Bersani ha invocato un governo di emergenza. Gli hanno fatto eco Fini e Casini, invocando nuove elezioni. Ma Berlusconi ha ribadito che non ha nessuna intenzione di dimettersi.

Né di anticipare il voto, senza la sfiducia del Parlamento. Anche se ormai la sua parabola è alla fine. O, forse, proprio per questo. Se uscisse di scena, a differenza del passato, stavolta difficilmente riuscirebbe a rientrare in gioco. Parallelamente, nel Pdl, pochi - oltre a Pisanu - sembrano disposti ad accantonare il proprio leader-padrone. A parte il fatto che nessuno ne avrebbe la forza, tutti si rendono conto che senza Berlusconi il Pdl resterebbe privo di identità e organizzazione. La stessa Lega vive con disagio crescente l'alleanza con Berlusconi. Soprattutto i militanti e la base, sempre più insofferenti. Ma Bossi e suoi fidi esitano a staccare la spina.

Il destino dei due leader è reciprocamente legato. Se Berlusconi cadesse, la posizione di Bossi verrebbe compromessa. Senza il Pdl e senza Berlusconi (per non dire senza Bossi), lontano dal governo: la stessa Lega, rischierebbe la marginalità politica e il declino elettorale. Come avvenne dopo la svolta secessionista del 1996. Una prospettiva insopportabile per un partito che ha da difendere (e da perdere) molti posti di governo - e di sottogoverno. Nella pubblica amministrazione e nella finanza. A livello nazionale e locale.

Così Berlusconi e il centrodestra "resistono" in Parlamento. Dove dispongono ancora di una maggioranza precaria. Sufficiente a garantire la "fiducia" quando è necessario. Mentre tra gli elettori oggi sono una minoranza, largamente "sfiduciata" dai cittadini.

Ciò rende il ricorso a elezioni anticipate assai improbabile. Anche se l'ipotesi echeggia, un giorno sì e l'altro pure. Ma le elezioni non le vuole nessuno. Anzitutto nella maggioranza. Figurarsi. Oggi, per il centrodestra, significherebbe perderle. Anche se Berlusconi dà il meglio di sé in campagna elettorale, quando è dato per spacciato. Ma stavolta è diverso. La sua stagione è finita. I valori e i modelli su cui ha fondato il proprio successo: logori e inattuali. La sua immagine non attrae più. Semmai avviene il contrario. La sua "base sociale" l'ha abbandonato. Gli imprenditori piccoli e grandi: ne chiedono le dimissioni da mesi. Ai loro congressi basta inveire contro il governo e il presidente del Consiglio per sollevare grandi boati di approvazione. La stessa Chiesa appare tiepida. Anche se le gerarchie mantengono un atteggiamento fin troppo prudente di fronte ai modelli e agli stili di vita proposti da chi guida il Paese.

Insomma, si tratta del momento peggiore per andare al voto, dal punto di vista di Berlusconi e del Pdl. Ma anche dal punto di vista della Lega, in evidente difficoltà nel recitare la parte dell'opposizione, dopo aver sostenuto fedelmente Berlusconi, da dieci anni in qua. Bossi lo ha detto esplicitamente a Pontida. È cambiato il "ciclo politico". A favore della Sinistra. E allora, perché votare? Tanto più che neppure a sinistra - nonostante il vento favorevole - si coglie molta voglia di andare al voto presto. Il Pd non si sente pronto. È diviso sulla questione delle alleanze. L'idea del Nuovo Ulivo, insieme all'Idv e a Sel, a Di Pietro e Vendola, dispiace a una parte del Pd, che preferirebbe la Grande Coalizione con il Terzo Polo. E teme di spingere l'Udc in braccio al centrodestra. A ragione, visto che le sorti della competizione elettorale diverrebbero altamente incerte.

Peraltro, la prospettiva del voto avvicinerebbe le primarie. Su cui nel Pd non c'è armonia di vedute. Quando e come farle? Primarie di partito o di coalizione? Oppure entrambe? Perché le primarie al gruppo del Pd piacciono quando l'esito è scontato. Non se sono davvero "aperte".

Infine, c'è la questione della "legge elettorale". Votare presto costringerebbe a utilizzare il famigerato Porcellum. Proprio mentre l'iniziativa referendaria, promossa da Parisi, volta ad abrogarlo e ristabilire il sistema elettorale precedente, ha ottenuto un massiccio sostegno popolare. Viaggia ben oltre le 500mila firme. Non a caso Alfano, a nome di Berlusconi, nei giorni scorsi, si è detto pronto a riformare l'attuale legge. Presumibilmente, per prendere tempo. E per evitare un nuovo referendum. Rischioso come il precedente, per il centrodestra. Mentre al Terzo Polo non piacciono né il Porcellum né il Mattarellum.

Mi rendo conto che questa ricostruzione, pedante e un po' prolissa, può apparire noiosa e scontata. Persino banale. Tuttavia, mi è parso utile proporla. Non solo a memoria futura - e presente. Ma perché dà il senso di quel che sta capitando nel nostro sistema politico. Mentre tutto intorno ci crolla addosso. Mentre le vicende politiche e i mercati globali richiederebbero - e, anzi richiedono - un governo che governi e un presidente del Consiglio credibile - o almeno non squalificato. Sostenuto da una maggioranza che sia tale non solo in Parlamento - e spesso neppure lì. Ma anche tra i cittadini e gli elettori.

In Italia, invece, viviamo un tempo di elezioni e dimissioni imminenti. Sempre possibili e da molte parti auspicate. Ma puntualmente scongiurate e rinviate. È come fossimo perennemente in crisi di governo. In campagna elettorale permanente. Quando non è possibile decidere nulla, perché è importante inseguire e conquistare ogni segmento di opinione pubblica. Ogni frammento del mercato elettorale. Un giorno dopo l'altro. Un momento dopo l'altro. Così tutto si agita, nel nostro piccolo mondo. Ma tutto resta uguale. Mentre fuori infuria la bufera (politica, monetaria, economica, finanziaria...).

Verrebbe da evocare la fortezza Bastiani, dove l'ufficiale Giovanni Drogo, insieme alla sua guarnigione, attende l'arrivo del nemico. Che non arriva mai. Nel Deserto dei Tartari narrato da Dino Buzzati. Ma si tratterebbe di una citazione troppo nobile, per il nostro povero Paese. Per il penoso spettacolo offerto dalla nostra scena politica. Che mi rammenta, piuttosto, un tapis roulant. Dove cammini e corri, con continui cambi di velocità e di pendenza. Ma resti sempre fermo. Nello stesso posto. Nella tua stanza. Senza una meta. Senza un orizzonte. Mentre il mondo fuori incombe.

La Repubblica (26 settembre 2011)

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